Ricercatrice dell'area "Globalizzazione e sostenibilità" presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

La risoluzione proposta dalla delegata al Congresso Americano Ocasio-Cortez e dal Senatore Markey, conosciuta come Green New Deal, appare particolarmente innovativa in un periodo di politiche ambientali stagnanti, caratterizzate da tecnicismi, visione settoriale ed un approccio definibile “del navigare a vista”. La sua peculiarità è ciò che i suoi detrattori chiamano vaghezza, e che invece rappresenta un elemento di realismo politico interessante: una visione finalmente sistemica del da farsi.

Come precisato da Britton-Purdy del New York Times, nel suo articolo uscito qualche giorno fa, diversamente da iniziative ambientali principalmente legate a promuovere strumenti specifici (carbon tax) o incentivare, tramite sussidi, comportamenti virtuosi ma di nicchia, il Green New Deal riallinea le politiche macro-economiche, del lavoro ed ambientali, evidenziando una stretta correlazione tra ciò che si decide in ambito climatico e ciò che genererà l’occupazione e l’ordine politico del futuro: qualcuno è forse convinto che i muri di separazione tra Paesi fermeranno i rifugiati ambientali? O che le questioni di sicurezza interna saranno slegate dagli impatti dei disastri naturali? O che investire in forme di agricoltura sostenibile non porterà nuovi posti di lavoro?

L’emergere di una proposta politica in questo senso, per quanto da precisare per evitare che si trasformi in un insieme di inutili buzz-words, è un ritorno alle origini nel panorama delle politiche ambientali americane che, secondo l’autore, già negli anni ’70 avevano inanellato alcune tra le più olistiche misure di controllo dell’inquinamento atmosferico, idrico e tutela delle specie a rischio.

Immaginare, quindi, che al paradigma corrente di investimenti pubblici in settori classici, tra cui l’oil&gas, forieri di moltissimi posti di lavoro e di un chiaro posizionamento geopolitico, possa sostituirsi una nuova visione che inizi, per esempio, dall’agricoltura, un percorso di accessibilità al mercato per i piccoli coltivatori americani e riduzione dell’impronta di carbonio nazionale, è ciò che il Green New Deal vuole immaginare.

Separare le tematiche ambientali da quelle macro-economiche non è solo sintomo di uno sguardo politico corto ma di un pericoloso rifiuto di cogliere come i modelli di produzione e consumo sostenibili siano effettivamente in grado di contribuire a tematiche quali la redistribuzione delle risorse, la messa in sicurezza di numerosi posti di lavoro, la circolazione di conoscenza e tecnologie al servizio degli ecosistemi su cui le comunità, da sempre, vivono e creano valore aggiunto. Il problema, semmai, è rinegoziare nuovi privilegi con vecchi attori della politica, mentre il tempo a disposizione si riduce e il Green New Deal deve necessariamente superare le secche di un disilluso immobilismo, procedendo per una profonda revisione del modello culturale, oltre che economico, statunitense.


Leggi l’articolo completo tratto dal New York Times


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