Tutte le diversità sono “giuste”?
Negli ultimi anni, il concetto di diversity – assieme ad alcune varianti come super-diversity (Vertovec, 2007) e hyper-diversity (Tasan-Kok et al, 2014) che sottolineano la crescente “diversità di diversità” delle metropoli contemporanee – è diventata una delle parole chiave per descrivere le città e definire gli obiettivi delle politiche. Diversità è utilizzato in modo ampio con riferimento ad aspetti economici, sociali, etnici e culturali, per questo rischia di trasformarsi in un concetto vuoto.
È dunque importante analizzare pratiche e retoriche mobilitate nel nome della diversità. Il contributo guarda agli usi della diversità nella pianificazione urbana, assumendo che non tutte le forme di diversità siano desiderabili e “giuste” (Fincher e Iveson, 2008). Pianificare in un contesto di diversità significa non dimenticare temi quali il diritto alla città, la riduzione delle disuguaglianze, l’ampliamento della partecipazione degli abitanti alla vita urbana.
Quale diversità nei quartieri etnici e culturali?
Il dibattito sulla diversità nelle città è caratterizzato sia dalla sua celebrazione come forza creativa che contribuisce alla crescita economica (UNESCO, 2002), sia dal timore che la “crescente diversificazione” delle società costituisca una minaccia per la coesione sociale.
Nella prima prospettiva, le politiche di rigenerazione urbana hanno fatto leva sulla diversità culturale per attrarre la “classe creativa” (Florida, 2002), investitori e turisti. Attraverso la promozione delle peculiarità di luoghi marginali, si valorizzano i fattori che li rendono attrattivi per riposizionarli nelle geografie delle città come “quartieri culturali”. Un’altra frontiera per queste politiche è l’investimento sui così detti “quartieri etnici”: aree caratterizzate dalla presenza imprenditoriale immigrata diventano il target di strategie di marketing che investono su immagini positive e occidentalizzate dei gruppi etnicamente connotati, sottolineandone il contributo nelle metropoli globali – si pensi alle Chinatown, Banglatown, Little India di tutto il mondo (Fincher et al, 2014; Fioretti e Briata, 2018: tandfonline.com)
Queste iniziative tendono a includere alcuni gruppi (èlite imprenditoriali di origine immigrata, popolazioni altamente specializzate e di reddito elevato), escludendone altre (immigrati in condizione di svantaggio, persone con livelli di reddito basso, anziani) (Syrett e Sepulveda 2010: Journals.sagepub.com). Politiche dunque poco attente alla dimensione redistributiva, che spesso si traducono nell’allontanamento di popolazioni a basso reddito.
Città e diseguaglianze
La mescolanza sociale: è sempre “buona”?
I gruppi in condizione di svantaggio sono al centro di una seconda prospettiva che guarda ai luoghi della diversità, in particolare dove c’è segregazione spaziale e sociale, come un problema (Galster, 2007: tandfonline.com; Briata, 2012; 2014). La principale forma di azione “de-segregante” espressa dalla pianificazione è il tentativo di diversificare popolazioni ed economie locali attraverso le politiche di social mix (Arthurson, 2012). Queste iniziative spesso si traducono nella realizzazione di case e servizi destinati alla classe media, per attrarla nelle aree povere e stigmatizzate (Bolt, 2009; Arbaci e Rae, 2012: Onlinelibrary.wiley.com). Si tratta di operazioni guidate da una logica di ingegneria sociale che guarda alla prossimità spaziale tra persone di background diverso come mezzo per stimolare mutua comprensione, ma anche un atteggiamento “aspirazionale” da parte delle popolazioni meno abbienti nei confronti di quelle benestanti. Una prospettiva che sottovaluta dunque gli elementi strutturali della deprivazione, delegando alle popolazioni marginali la responsabilità di emergere attraverso nuove aspirazioni dalla propria posizione di svantaggio. In realtà, un’ampia letteratura ha ormai evidenziato come anche queste operazioni si traducano in operazioni di espulsione delle popolazioni più povere e problematiche (Bridge et al, 2012).
Diversità e disuguaglianza
In entrambe le prospettive – diversità come risorsa/ problema – è riscontrabile un uso ambiguo di questo concetto: se le politiche culturali mettono al lavoro una concezione molto selettiva della diversità, il social mix mira a costruire un nuovo tipo di diversità, “più equilibrata”, vista come un rimedio a problemi che potrebbero emergere dalla diversità esistente.
Ambiguità che lasciano spazio a una retorica della diversità spesso funzionale a politiche che producono forme di gentrification guidate dalla mano pubblica. Se pianificare in un contesto di diversità significa saper anche discriminare tra diversità socialmente giuste e ingiuste, è cruciale distinguere tra diversità etnico-culturale e diversità economico-sociale o tra diversità e disuguaglianza. Il concetto di diversity, per come è stato declinato nella più recente letteratura, ma anche nelle pratiche di pianificazione più diffuse, non aiuta in tal senso.