Fu Raniero a convincerci nel 1960 – me e Gisella de Juvalta, un’assistente sociale venuta dalla scuola olivettiana del Cepas a Roma dove aveva appreso, come me più tardi, il “community work” – a trasferirci a Torino, abbandonando il progetto di un intervento in Calabria, un intervento che volevamo, con l’assistenza di Rossi Doria più comunitario. Ci disse che nel Sud tutto stava cambiando, con gli effetti del “miracolo economico” e con la grande migrazione verso il Nord delle sue forze migliori, e che tutto si sarebbe ormai giocato nel “triangolo industriale”. I contadini diventavano operai, e noi avevamo il dovere di tenerne conto.
Tanto fu convincente il suo discorso che Gisella (piemontese di Fossano) tornò a Torino trovando subito lavoro alla Fiom e io mi ci trasferii trovando lavoro al Centro Gobetti, fondato da pochissimo, e come correttore di bozze all’Einaudi.
Non sono mai stato un operaista convinto, e non è stata la classe operaia la mia principale preoccupazione – semmai, da maestro elementare per vocazione, lo è stata il campo dell’educazione – e ho trovato un parziale equilibrio alla mia irrequietezza nel lavoro delle riviste.
Sono contento e orgoglioso di aver seguito per tre anni ansiosamente non solo il destino degli immigrati meridionali ma anche quello degli operai della Lancia e delle piccole fabbriche e bòite della periferia, di aver visto gli operai molto da vicino, e di essere stato nelle loro case da amico e compagno. Di aver preso parte attiva, del tutto secondaria, alla preparazione degli scioperi del ’62. Il giorno in cui gli operai della Fiat si destarono dal decennale sonno della guerra fredda, rimane uno dei più emozionanti e dei più belli della mia vita. E lo devo a Raniero.
Raniero è stato un personaggio esemplare della storia del socialismo italiano (altri che ho incontrato e stimato, dai quali sono stato affascinato, furono Lelio Basso e Riccardo Lombardi, pur su posizioni molto diverse tra loro), ma nel tempo di un socialismo calante e della ricerca di strade nuove, nel mondo.
Raniero e altri come lui pensavano di averle trovate nelle trasformazioni di un’epoca invero nuova ma che durò molto poco, sorpassata da altre e più radicali novità. All’era della metalmeccanica stava già succedendo quella della plastica, mentre stava crescendo nell’ombra quella dell’elettronica e del digitale.
Raniero non ha potuto vedere il ’69 e l’apparente trionfo della classe operaia, ma il suo bisogno di “inchiesta” e di una teoria (di un marxismo) adeguata ai nuovi tempi erano in lui fortissimi, e sono certo che avrebbe dato un contributo di idee enorme ai movimenti nuovi, riuscendo a farsene ascoltare.
La sua attenzione per la ricerca sociologica e il suo rispetto per la realtà, gli avrebbero certamente evitato la rigidità delle nuove ideologie e dei nuovi miti, e certamente la stupidità “leninista” dei partitini sorti in quegli anni. Forse, chissà, i nuovi tempi lo avrebbero costretto in una qualche forma di solitudine, ma non gli avrebbero certo impedito di pensare e di dire.
Sarebbe stato più minoritario che mai e però, ne sono convinto, più lucido e intelligente e appassionato che mai.
Goffredo Fofi
Saggista
Consigli di lettura
La Fondazione Giangiacomo Feltrinelli ricorda Raniero Panzieri nell’anniversario della sua morte: una pagina web dedicata e un ebook realizzato scegliendo un testo scritto nell’ottobre 1956 durante i giorni dell’invasione dell’Ungheria da parte delle truppe del Patto di Varsavia. La versione originale del testo è conservata nelle Carte Raniero Panzieri (fascicolo 24) di proprietà della Fondazione.
Dalle quelle carte è stato scelto il testo che meglio testimoniasse il pensiero e il carattere di Panzieri, la sua febbre di sapere e innovare.
L’ebook della collana Testo Ritrovato dal titolo Gli intellettuali di sinistra e i fatti d’Ungheria presenta oltre al testo di Panzieri anche due scritti originali di Goffredo Fofi e Cesare Pianciola.