La crisi-Covid 19 non ha colto di sorpresa solo i decisori politici e le istituzioni sanitarie ma anche studiosi e osservatori. Come ben argomentato in un articolo sull’Atlantic, essa ha stupito e turbato non solo per le difficoltà della scienza medica nell’affrontare la diffusione e l’aggressività del virus, né solo per la complessità e la portata delle scelte sulle priorità di intervento e i possibili corsi di azione politica per contenerne gli effetti, e nemmeno solo per le sue conseguenze sullo sviluppo (economico o ambientale, ad esempio), o ancora per le dinamiche comunicative della crisi fra decisori, media e pubblico di massa. A disorientarci così tanto, come cittadini e come studiosi, è stata soprattutto la concatenazione di tutti questi aspetti, e l’impressione che di questa matassa globale sia particolarmente difficile e certamente scoraggiante anche solo provare di risalire al bandolo. Si tratta di una crisi sanitaria la cui origine e portata è stata definita da molte delle dinamiche di connessione che caratterizzano la globalizzazione: mobilità geografica, superamento dei confini, interdipendenza economica e culturale, con le rotte aeree e movimenti frenetici a definire la geografia del contagio e degli interventi.
La connessione tecnologica, in particolare, innerva tutti questi aspetti. L’infrastruttura digitale in cui si muove ormai un’ampia maggioranza della popolazione ha dettato il contesto di azione dell’intervento medico, della ricerca, delle decisioni politiche e della loro implementazione, nonché delle implicazioni sociali, economiche, psicologiche, etc. Trasversalmente a queste dimensioni, inoltre, la crisi ha avuto un notevole impatto anche su vari aspetti della politica e della società: la grande visibilità dell’emergenza e della produzione di informazione ad essa relativa, la crescente interrelazione fra la comunicazione politica e la comunicazione della scienza con la sua articolazione in più voci spesso fortemente dissonanti fra loro, il ruolo delle fake news e del complottismo, le modalità di consumo comunicativo e la formazione dell’opinione pubblica, per non parlare della gestione delle ripercussioni politiche ed economiche, delle modalità di policy making, della crisi economica e ancora delle implicazioni della pandemia in termini di benessere individuale, socialità e valori.
Come si vede da questa rapida panoramica, tantissimi fattori si sono accavallati nella genesi, nella gestione dell’emergenza sanitaria e nella complessa ripartenza. Dovendo sintetizzare le peculiarità di questa crisi in un concetto, a mio parere il più efficace è quello di iperconnessione: non solo, come tradizionalmente inteso, degli individui ai media, ma anche dei diversi elementi della crisi l’uno con l’altro.
Una crisi quindi iperconnessa per genesi, geografia, istituzioni, dinamiche, impatto, prospettive, comunicazione, informazione, protagonisti. Una crisi iperconnessa, inoltre, anche nel senso più noto del termine: durante le fasi dei lockdown, la stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta si è trovata in qualche misura limitata nella propria abituale libertà di movimento e ha fatto ricorso alle infrastrutture digitali per proseguire le proprie attività: dalle relazioni, all’istruzione, al lavoro, ai consumi, eccetera. A dare sostanza all’esortazione “lontani ma vicini” sono stati anzitutto i bit delle reti digitali. Una condizione, almeno nella misura sperimentata durante il lockdown, del tutto inedita; se non, forse, per i ragazzi “iperconnessi” della generazione “iGen” descritti dalla psicologa Jean Twenge, abituati (nel loro caso, non per costrizioni esterne ma sin troppo volontariamente) a “vedere”, e in un certo senso a vivere, il mondo attraverso lo schermo dei propri smartphone, adattando ad essi le proprie relazioni, competenze, identità: una condizione che in poche settimane si è allargata alle altre generazioni, diventando il segno distintivo di questa crisi e accelerando alcune delle dinamiche già in atto.
Il lockdown ha mostrato come, per tutti, la digitalizzazione dell’informazione e delle connessioni da semplice strumento possa diventare l’infrastruttura di base per una quantità e varietà inimmaginabile di attività, proiettando tutti in una dimensione e un vissuto più simili a quelli delle generazioni più giovani. Osservare quanto è avvenuto fra i giovani, e perché, sarà quindi particolarmente utile per capire questa crisi e la sua evoluzione. Anche perché la crisi presenta alle diverse generazioni una situazione quasi di scuola, da corso di etica pubblica, sui trade off nel pagarne i costi: valeva davvero la pena, per i giovani, di rispondere alla chiamata alla solidarietà intergenerazionale pagando dei costi molto alti in termini di vita quotidiana? La risposta, durante il lockdown, è stata pienamente affermativa: oltre ad essere molto preoccupati per la crisi e le sue possibili conseguenze per le altre generazioni (e magari, sebbene irrazionalmente, anche un po’ per se stessi), i giovani hanno saputo rispondere con solidale efficacia alla chiamata alle responsabilità non uscendo di casa, continuando a studiare, coltivando relazioni e interessi, insomma facendo in pieno “lontani ma vicini” la propria parte.
Probabilmente gli “iperconnessi” erano già dotati di caratteristiche particolarmente efficaci per affrontare questa crisi: competenti digitalmente al punto da offuscare spesso il confine fra comportamenti reali e reputazione virtuale, meno ribelli delle generazioni precedenti, già incerti per la crisi economica, forse anche più sensibilizzati (anche attraverso le recenti mobilitazioni per l’ambiente) all’importanza della comunità oltre all’individuo. Insomma, pressoché perfetti per rendere efficace quanto richiesto dalle autorità coltivando attività e affetti a distanza, anche attraverso uno o spesso più schermi, trovando soluzioni creative anche per le questioni della vita quotidiana più condizionate dal lockdown.
Il comportamento dei giovani appare cambiato con la ripartenza delle attività. Verso la fine dell’estate essi sono spesso stati additati fra i nuovi “untori” a seguito di vacanze, feste e “movide” locali. Che l’adolescenza e la post-adolescenza siano caratterizzate da comportamenti a rischio non costituisce certo una novità, e che questi siano avvenuti in una situazione in cui, come abbiamo osservato, il rischio era solo indiretto, rende probabile che in una certa misura le critiche dei commentatori non siano infondate. Tuttavia, e torniamo a come i giovani iperconnessi possano probabilmente essere lo specchio di tutti nella crisi, può avere senso chiedersi il perché questi comportamenti a rischio fossero invece così disciplinati durante la quarantena. E a questo proposito non si può non osservare che i giovani hanno ripreso a uscire, frequentare i locali e le discoteche, viaggiare (in altre parole: a fare quello che fanno i giovani) quando, semplicemente, queste attività sono state nuovamente rese possibili.
Parallelamente, mentre una parte dell’opinione pubblica restava insofferente verso qualsiasi tipo di comportamento a rischio, presso altri settori della popolazione si diffondevano atteggiamenti più scettici verso la necessità delle misure di prevenzione e la necessità di comportamenti volti a prevenire i rischi; atteggiamenti, spesso (in questo fortemente stimolati dalla ripresa della competizione politica a tutto campo e con ogni mezzo), correlati alla tendenza a commisurare l’appropriatezza dei propri comportamenti alla luce di quanto fatto (o, più spesso, non fatto) dagli altri.
L’impressione di chi scrive è che i giovani siano stati lo specchio più nitido di quanto possa cambiare la disponibilità ad accettare delle scelte politiche se esse sono universalistiche o invece selettive. In prima fila quando si trattava, tutti, di fare la stessa cosa (cioè restare a casa), ben più refrattari al sacrificio individuale quando il confronto con quanto concesso agli altri è cominciato ad apparire eccessivamente penalizzante e anche un po’ ipocrita (perché mai non viaggiare o non frequentare bar, ristoranti e discoteche, visto che i voli erano ripresi e le attività ricreative erano state riaperte?). Probabilmente, oltre ad averci mostrato che la rete può innervare compiutamente qualsiasi attività, i giovani “iperconnessi” ci possono insegnare che le opinioni pubbliche sono sorprendentemente disposte ad accettare misure assolutamente straordinarie – e in cui i costi per se stessi superano i benefici anche comparativamente rispetto ad altri gruppi sociali – sino a che queste misure sono necessarie e universalistiche; divenute selettive, il senso di dover pagare un prezzo più alto rispetto agli altri prende il sopravvento e con esso le pulsioni verso una maggiore polarizzazione delle preferenze e un maggiore egoismo nei comportamenti.