Università IULM di Milano

É la geografia a fare la storia? Nelle fasi iniziali dello sviluppo economico, quando le capacità tecnologiche di trasformare l’ambiente sono modeste, le condizioni naturali – la geografia – si rivelano una determinante chiave dello sviluppo, o del mancato sviluppo. Il destino dei territori, e delle loro popolazioni, viene spesso plasmato dal caso.

La rivoluzione agricola è iniziata, per prima, nelle regioni in cui si trovavano più specie, animali e vegetali, da domesticare: soprattutto lungo l’asse Est-Ovest dell’Eurasia, nella sua zona temperata; da lì sono sorte le civiltà principali che hanno dominato il Vecchio Mondo, quella cinese e quella medio-orientale e mediterranea, divisasi poi nell’ecumene cristiana e islamica.

Nel Nuovo Mondo, nell’Africa sub-sahariana, in Oceania, la rivoluzione agricola è iniziata molto più tardi, o non è iniziata affatto (come in Australia), per la mancanza di specie da addomesticare, soprattutto animali.

L’America e l’Australia, in particolare, erano continenti che non avevano conosciuto i primi ominidi e così, quando vi giunsero i Sapiens sapiens, i grandi mammiferi di quei mondi non erano spaventati alla loro vista, cioè alla vista di un essere vivente dalle dimensioni e dall’aspetto non preoccupanti; ragion per cui gli esseri umani poterono cacciarli facilmente, fino a sterminarli (fra loro anche gli ultimi esemplari di cavalli lì rimasti; l’animale sarà reintrodotto poi dagli spagnoli).

Per questi motivi, le civiltà amerinde si svilupparono in quel continente con millenni di ritardo, rispetto alle nostre: per gli spagnoli del Cinquecento fu come confrontarsi con le civiltà dell’età del bronzo, con i sumeri o gli antichi egizi. E non solo. Sempre per una casualità, una distribuzione accidentale delle risorse nella mappa del Pianeta, quelle civiltà si svilupparono anche con alcune difficoltà in più, rispetto alle prime sorte invece in Eurasia. Per esempio, anche se probabilmente conoscevano la ruota, non la utilizzavano, perché in mancanza di animali da traino quello strumento non era conveniente. Non solo: dato che vivevano meno a contatto diretto con gli animali, quelle popolazioni avevano anche molti meno batteri, e molti meno anticorpi; furono sterminate, nell’incontro con gli europei, soprattutto dai germi che noi gli trasmetteremo (il vaiolo su tutti).

Il caso giocherà un ruolo cruciale nel decidere le sorti delle civiltà almeno fino alla rivoluzione industriale, cioè fino all’alba dello sviluppo economico moderno.

La presenza del carbone fu uno dei fattori chiave della rivoluzione industriale inglese, anche se non certo l’unico. Così come, la scarsa conoscenza di questa risorsa era stata probabilmente importante nell’impedire un’ulteriore evoluzione del mondo romano, che pure aveva già dimestichezza con i principi della macchina a vapore (ma di nuovo: non fu questo il solo fattore che impedì il salto industriale già nel mondo classico).

Adesso la geografia a mano a mano che la tecnologia progredisce e così la capacità di governare e cambiare il mondo naturale, non è più l’unico dato che conta. Decisive sono già, in buona misura, le istituzioni (quelle che favoriscono la libera circolazione delle idee e gli interessi dei ceti borghesi), la cultura e l’etica (quelle incentrate sulla “conoscenza utile”, piuttosto che speculativa, e sulla convinzione che sia possibile e valga la pena operare per migliorare la condizione umana), l’istruzione (l’alfabetizzazione, innanzitutto). Queste condizioni saranno poi sempre più importanti, nell’epoca contemporanea, allorquando l’avvio dello sviluppo economico moderno fa fare alle conoscenze tecnologiche un salto di qualità, esponenziale e, per la prima volta, sostenuto nel tempo.

Osserviamo che la disponibilità di risorse naturali gioca ancora un ruolo nelle prime fasi dello sviluppo industriale: la ricchezza di carbone in Belgio, che all’inizio dell’Ottocento fu la prima regione europea a industrializzarsi, e poi in Germania; il “carbone bianco”, cioè l’idroelettricità, per il decollo industriale del Nord Italia in età liberale. In seguito, però, contano sempre meno.

Anzi, la “benedizione” rappresentata dalle risorse naturali si rovescia, per certi aspetti, in una “maledizione”: giacché favorisce la rendita, piuttosto che l’impegno e il rischio imprenditoriale.

Nella nostra epoca, Paesi ricchi di risorse naturali non riescono a fare il salto verso la società industriale terziaria avanzata, proprio perché avendo una fonte facile di ricchezze le loro classi dirigenti, e per certi aspetti la loro società tutta, non ne hanno gli incentivi.

Di contro, assistiamo alla rapida ascesa di regioni e nazioni che di risorse naturali sono invece prive: il Giappone, specie nella seconda metà del Novecento, è il caso più spettacolare. Ma per molti aspetti la storia dell’Italia, nello stesso periodo, è analoga.

Negli ultimi anni siamo entrati in una nuova era di trasformazioni tecnologiche: dal digitale all’automazione, alle biotecnologie, all’energia verde. Almeno per quest’ultima le condizioni geografiche contano ancora molto. Ma al netto di alcuni casi, nel mondo di oggi non sono più le risorse naturali a fare la ricchezza di un territorio, come era in passato, ma le risorse umane, per così dire: l’istruzione, l’etica, istituzioni che seguano logiche a un tempo inclusive e competitive.

Questo vale anche per le possibilità dei territori italiani di adeguarsi ai cambiamenti, nell’era della seconda globalizzazione e adesso, forse, della de-globalizzazione: una capacità modesta, che segna il declino economico italiano negli ultimi decenni, proprio perché il nostro sistema Paese era poco in grado di innovare sulla più moderna frontiera tecnologica, come invece si richiede a una grande economia avanzato: per ragioni dovute al capitale umano, all’etica, alle istituzioni.

Sono questi gli ingredienti che determinano la capacità di un sistema socio-territoriale di produrre, o recepire, adattare e diffondere, l’innovazione. Ed è questa capacità in ultima istanza che permette di governare i cambiamenti, di avviarli oppure di saperli sfruttare.

Oggi non è più, quindi, la geografia a fare la storia. Ma è l’essere umano diventato ormai l’artefice del suo destino.

Fotografia: Pedro Henrique Santos
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