La disparità di genere in Italia resta enorme, come testimoniano i dati dell’ultimo Gender Gap Index che ci pongono al 63esimo posto al mondo dopo Uganda e Zambia e appena sopra la Tanzania. Siamo 46 posizioni sotto la Spagna (17esima), 48 sotto la Francia (15esima) e ben 53 sotto la Germania (decima). La violenza di genere è anche un problema sempre più grave: le donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza in Italia sono state 20.711 nel 2021 (il 3,5% in più rispetto al 2020) e i dati per il 2022 sono in aumento rispetto all’anno precedente. A fronte di questa situazione sarebbe naturale aspettarsi di vedere la questione femminile al centro dei programmi elettorali dei vari schieramenti politici.
Il Partito Democratico ha avanzato come seconda proposta ufficiale (dopo quella sulla dote per i diciottenni finanziata con una patrimoniale sui redditi superiori ai 5 milioni di euro) proprio una sul gender pay gap, sottolineando che esiste una differenza retributiva del 20% tra uomini e donne. Questo dato proviene probabilmente da un rapporto pubblicato a gennaio 2022 da AlmaLaurea, un consorzio interuniversitario che si propone di valutare le tendenze e i risultati, in termini lavorativi, dei percorsi universitari.
Nel rapporto si legge che «a cinque anni dalla laurea, gli uomini percepiscono, in media, circa il 20% in più» rispetto alle donne, a parità di titolo.
Le donne con una laurea di primo livello, quindi che hanno ottenuto al massimo un titolo triennale, guadagnano in media 1.374 euro al mese, e gli uomini 1.651, mentre gli importi salgono rispettivamente a 1.438 euro e 1.713 per i titoli di secondo livello. Il rapporto si riferisce quindi alle differenze di paga per titolo di studio conseguito, ma non considera la mansione svolta, criterio citato invece dal Pd.
I dati più aggiornati relativi alla disparità salariale a parità di mansione risalgono al 2018: sono stati raccolti da Eurostat e rielaborati per l’Italia da Istat. Per quanto riguarda la paga oraria, complessivamente il divario salariale – quindi la differenza nelle retribuzioni tra uomini e donne – tendeva ad aumentare per le professioni in cui vi è una minore presenza femminile. La differenza nella retribuzione oraria era infatti massima tra i dirigenti, una categoria professionale in cui in media gli uomini guadagnavano il 27,3% in più rispetto alle donne (46,2 euro all’ora contro 33,6 euro). Seguiva la categoria delle Forze armate (18,8%) e quello degli artigiani e degli operai specializzati (18,5%), mentre il divario raggiungeva il valore minimo – il 9,3% – tra gli addetti a professioni non qualificate, descritte dall’Istat come mansioni basate su attività «semplici e ripetitive, per le quali non è necessario il completamento di un particolare percorso di istruzione».
In generale, i dati sul divario salariale vanno letti con cautela. Il fenomeno dipende da molti fattori: i dati considerati, e il modo con cui questi vengono elaborati, possono modificare anche in modo rilevante le conclusioni che si traggono.
Se guardiamo per esempio alle differenze complessive nella paga oraria lorda (il cosiddetto gender pay gap) in Italia la differenza tra le retribuzioni di uomini e donne è tra le più ridotte dell’Unione europea. Secondo Eurostat, nel 2020 la paga oraria lorda delle donne era del 4,3% più bassa di quella degli uomini, il quarto valore più basso tra i 25 Paesi membri dell’Ue per cui sono disponibili dati (mancano Grecia e Irlanda). Al primo posto c’era il Lussemburgo, dove la differenza era di appena 0,7 punti percentuali, e all’ultimo la Lettonia, con una differenza del 22,3%.
La situazione però cambia notevolmente se si analizza il cosiddetto gender overall earnings gap, un parametro più esaustivo che considera non solo la differenza tra le paghe orarie, ma anche il tasso di occupazione femminile nei vari Paesi europei e il numero di ore lavorate da uomini e donne. Con l’unione di questi tre fattori, nel 2018 (ultimo anno per cui sono disponibili dati) l’Italia era il terzo Paese con le differenze più marcate tra gli stipendi di uomini e donne, pari al 43%. Solo Austria (44,2%) e Paesi Bassi (43,7%) avevano due percentuali più alte di quella italiana. All’ultimo posto della classifica c’era invece il Portogallo, con il 20,4% (il valore più basso dell’Ue).
La legge Gribaudo 162/2021, dai più denominata legge sulla parità salariale, contiene una serie di modifiche e integrazioni al codice delle pari opportunità (d.lgs. 198/2016), con una serie di interventi atti a contrastare il gap retributivo di genere. In Italia, infatti, secondo i dati ISTAT, la retribuzione oraria è pari a 15,2 euro per le donne e a 16,2 per gli uomini; il differenziale retributivo di genere è più alto tra i dirigenti (27,3%) e i laureati (18%). Inserita pure nel contesto della bassa quota di donne occupate, la differenza retributiva è un gap di genere alimentato da discriminazioni, che si inserisce tra le principali forme discriminatorie che comunemente sono chiamate allocativa e valutativa.
La prima sta a indicare la differente allocazione di donne e uomini nel mercato del lavoro, per cui è più probabile trovare un maggior numero di donne nelle occupazioni meno redditizie; la seconda riguarda la minor valutazione del lavoro delle donne rispetto a quello degli uomini anche quando svolgono gli stessi compiti, con capacità quindi comparabili. Di certo non si esauriscono così tutte le varie forme di discriminazione, ma l’ipotesi è che queste discriminazioni siano l’effetto di un pregiudizio di genere. La novità più rilevante della legge 162/2021 è l’integrazione della nozione di discriminazione diretta e indiretta (di cui all’art. 25 del codice pari opportunità).
In particolare, vengono inseriti tra le fattispecie discriminatorie anche gli atti di natura organizzativa o incidenti sull’orario di lavoro o che limitino lo sviluppo di carriera per la donna. La nozione di discriminazione è estesa anche agli atti compiuti nei confronti di “candidate e candidati in fase di selezione del personale” e non più solamente alle lavoratrici e ai lavoratori. Di notevole impatto è poi l’estensione, in capo ad aziende che occupano oltre i cinquanta dipendenti (modifica all’art. 46 del codice pari opportunità che prevedeva la soglia di 100 dipendenti) dell’obbligo di redigere un rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile almeno ogni due anni.
A chi viola questo obbligo saranno sospesi per un anno i benefici eventualmente goduti (se l’inerzia si protrae per oltre un anno dall’invito ad adempiere). Altra interessante novità è l’introduzione del nuovo art. 46 bis che, a decorrere dal 1 gennaio 2022, prevede l’istituto della certificazione della parità di genere, tendente a “ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale e parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità”; tale certificazione è riservata alle aziende, pubbliche e private, che, in via obbligatoria o su base volontaria (meno di 50 dipendenti), adottino i rapporti biennali.
Le aziende private in possesso della certificazione della parità di genere otterranno, inoltre, una premialità di parità (art.5 l.162/2021), ovvero uno sgravio contributivo per il 2022, nonché un punteggio premiale nell’ambito della valutazione, da parte di autorità titolari di fondi europei, nazionali e regionali, di proposte progettuali, ai fini della concessione di aiuti di Stato. Obiettivo della nuova legge sulla parità salariale, dunque, è quello di sostenere le aziende “sane” che rispettano e diffondono le buone pratiche in materia di uguaglianze di genere.
Ritornando al rapporto AlmaLaurea, nel 2020 le donne costituiscono quasi il 60% dei laureati in Italia. Da questo primo importante dato parte l’analisi condotta da AlmaLaurea che sottolinea peraltro la sovente provenienza delle donne da contesti familiari meno favoriti (il 28,3% delle laureate ha almeno un genitore laureato rispetto al 34,3% degli uomini) ed evidenzia come esse siano state interessate da una minore selezione basata sul background familiare (consegue la laurea nello stesso ambito disciplinare di uno dei genitori il 18,8% delle donne e il 21,7% degli uomini).
Tuttavia, le donne dimostrano migliori performance pre-universitarie (voto medio di diploma 82,5/100, mentre è 80,2/100 per gli uomini) e universitarie (concludono gli studi in corso il 60,2% delle donne, rispetto al 55,7% degli uomini; il voto medio di laurea è, rispettivamente, pari a 103,9 e 102,1/110). Inoltre, durante gli studi, le donne prendono parte più degli uomini alle esperienze di tirocinio curriculare (61,4% rispetto al 52,1%), ma anche – seppur con differenze poco rilevanti – alle esperienze di lavoro durante gli studi (66,0% rispetto al 64,0%) e a quelle di studio all’estero (11,6%, rispetto al 10,9% degli uomini).
Allargando lo sguardo ai dati complessivi emersi dall’ultimo report Eurofound viene fuori una situazione complessa poiché c’è chi non lavora perché il lavoro non lo trova, chi viene pagato meno di quanto dovrebbe, chi il lavoro non lo cerca nemmeno più perché scoraggiato e chi preferisce non lavorare. Ma c’è anche chi non lavora quanto vorrebbe perché il mercato del lavoro non glielo permette: un fenomeno in aumento in Europa, che colpisce soprattutto le donne e fa riferimento al concetto di labour slack (lavoro debole).
Ulteriori manifestazioni del sottoutilizzo della forza lavoro, secondo lo schema dell’organizzazione internazionale del lavoro (Oil), sono poi la sovra qualificazione, ovvero quando le persone svolgono un impiego rispetto al quale hanno qualifiche o competenze più elevate, e le retribuzioni inadeguate. Mettendo insieme tutte queste casistiche si stima che il fenomeno del ‘labour slack’ interessi il 14% degli occupati in Europa, con punte particolarmente significative nell’Europa meridionale.
In Spagna, per esempio, la casistica riguarda circa un quarto di tutto il mercato del lavoro. L’Italia è seconda da questo punto di vista (22,8%), seguita dalla Grecia (22,2%). Agli ultimi posti invece si trovano alcuni Paesi dell’Europa centrale e orientale, in particolare Repubblica Ceca (3,9%), Polonia (5,7%) e Malta (5,5%). Una delle principali componenti di questa parte del mercato del lavoro è quella relativa al part-time, che in moltissimi casi non è una libera scelta, ma un ripiego, ovvero il risultato di una difficoltà a trovare un impiego più sicuro. Non a caso si parla di “involuntary part-timers”, occupati a tempo parziale involontari.
Analizzando i dati relativi ai Paesi più popolosi (Germania, Francia, Italia e Spagna), vediamo che il dato era molto elevato nel 2009 in Francia e Spagna (pari rispettivamente al 6% e al 4,1%), mentre in Germania si attestava al 3,2% e l’Italia riportava la cifra più bassa (1,6%). In Francia e Germania si è poi registrato, negli anni, un graduale calo (rispettivamente di 1,7 e 1,8 punti percentuali), mentre in Spagna si è verificato un incremento che ha portato questa componente della forza lavoro a toccare il 6,5% nel 2014, per poi calare progressivamente fino al 4,8% nel 2020 (e registrare un lieve aumento nel 2021).
Anche in Italia la cifra è più elevata rispetto al 2009: 3%, ovvero 1,4 punti percentuali in più rispetto al dato di 11 anni prima. La sottoccupazione è un fenomeno che colpisce maggiormente le donne rispetto agli uomini. Infatti, precisano ancora i ricercatori, “pur essendo mediamente più istruite, ad oggi in UE le donne lavorano ancora meno degli uomini. A causa di pregiudizi sociali e culturali sui ruoli familiari spesso sono costrette più dei loro colleghi maschi a scegliere occupazioni con meno ore, che permettano loro di dedicarsi principalmente alla cura della famiglia e della casa. Condizioni dettate da una forte disparità di genere che ancora incide in Europa”.
Da questo punto di vista, il record si registra in Spagna, dove il 7,6% delle donne svolge un lavoro con un quantitativo più basso di ore (contro il 2,8% degli uomini). Seguono i Paesi Bassi (7,5%) e la Francia (6,3%). L’Italia (4,2%) è solo leggermente al di sopra della media Ue. Mentre, anche in questo caso, agli ultimi posti si trovano alcuni Paesi dell’Europa centrale e orientale – in particolare la Bulgaria (0,3%, senza alcuna differenza di genere), la Repubblica Ceca e la Slovacchia (entrambe con 0,5%). La Romania è l’unico stato Ue in cui questa cifra risulta più elevata tra gli uomini (1,9% contro 0,7%). Da sottolineare inoltre che, considerando i punti di divario, le maggiori disparità di genere si registrano in Spagna (4,8 punti percentuali), Francia (3,9) e Paesi Bassi (3,6).
Nel 2020 conciliare i tempi di vita e lavoro è stata un’impresa ancor più ardua del solito, soprattutto per i genitori. Le nostre case si sono trasformate in uffici, ma anche in scuole per chi ha dei bambini. In Italia con la nuova Legge di Bilancio 2021, sono aumentati da 7 a 10 i giorni di congedo di paternità obbligatori e remunerati al 100%. Un piccolo passo avanti, ma è ancora tanta la strada da fare se si pensa a quello che succede nel resto d’Europa. Nel 2019 una direttiva dell’Unione europea ha provato a disegnare delle linee comuni con riferimento all’equilibrio tra tempi di lavoro e vita privata. Rispetto alla maternità (e alla paternità) l’Inps, con il messaggio 4 agosto 2022, n. 3066, illustra le novità introdotte dal decreto legislativo 30 giugno 2022, n. 105 in materia di maternità, paternità e congedo parentale e fornisce le prime indicazioni utili per il riconoscimento delle relative indennità, che entreranno in vigore dal 13 agosto 2022.
Le nuove disposizioni normative promuovono un miglioramento della conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare per tutti i lavoratori che svolgono ruoli di cura come genitori o prestatori di assistenza, puntando anche al raggiungimento di una effettiva parità di genere sia sul lavoro che in famiglia. Tra le novità principali, è previsto il congedo di paternità obbligatorio di 10 giorni fruibile dal padre lavoratore dipendente tra i due mesi precedenti e i cinque successivi al parto, anche in caso di nascita o morte perinatale del bambino. I giorni di congedo sono fruibili dal padre anche durante il congedo di maternità della madre lavoratrice e sono compatibili con la fruizione (non negli stessi giorni) del congedo di paternità cosiddetto “alternativo”.
Per le lavoratrici autonome il diritto all’indennità giornaliera è ora riconosciuto anche nei periodi antecedenti i due mesi prima del parto, in caso di “gravi complicanze della gravidanza o di persistenti forme morbose che si presume possano essere aggravate dallo stato di gravidanza”, accertate dalla ASL. Per quanto riguarda il congedo parentale, il diritto all’indennità viene esteso fino ai 12 anni d’età del bambino, rispetto ai sei anni precedentemente previsti, con una diversa ripartizione dei periodi indennizzabili che complessivamente possono arrivare fino a un massimo di nove mesi e non più sei.
In Europa a far meglio è la Spagna. Dal 1 gennaio 2021 i giorni di congedo sono equivalenti per entrambi i genitori. Sia le mamme che i papà hanno diritto a 16 settimane di congedo, non trasferibile e pagate al 100%. Di queste le prime 6 sono obbligatorie subito dopo la nascita del bambino, mentre le successive 10 sono facoltative e i genitori potranno scegliere se utilizzarle a tempo pieno o part time. Si tratta di una decisione che incoraggia a ripensare la genitorialità in termini attuali e affini alle nuove sfide sociali, con entrambi i genitori coinvolti nella cura del figlio sin dai primi giorni di vita. Ma non solo. Sostenere l’uguaglianza di genere in termini di diritti e doveri della genitorialità significa anche ridurre quel gap ancora troppo ampio che nel mondo del lavoro vede donne e uomini in due lati opposti della barricata.
I Paesi scandinavi si difendono molto bene. In Norvegia i genitori possono beneficiare di quasi un anno di congedo con 46 settimane pagate al 100% o 56 settimane all’80%. Si tratta di 12 settimane per la mamma, 12 per il papà e il resto da dividere fra i due. Nella vicina Svezia ogni genitore ha diritto a 12 mesi di congedo da condividere, ma sono obbligatori almeno due mesi a testa. In Danimarca invece c’è ancora una certa differenza tra il congedo concesso alle mamme e quello per i papà: su un totale di 52 settimane, infatti, 2 sono del papà, 14 della mamma, il resto da spartire in modo equo. Menzione speciale invece per la Finlandia, che come sappiamo ha annunciato da tempo la decisione di equiparare i mesi di congedo fra mamma e papà: e proprio il 2021 sarà l’anno che vedrà anche qui l’applicazione di questa riforma. Non solo. Nei Paesi scandinavi ricorrere al congedo di paternità e poi a quello parentale è più che normale. Bastino le percentuali da record della Norvegia: la quota dei papà che ne hanno beneficiato ha superato il 90%. È un esempio di successo di come le politiche progressiste, affiancate dalla diffusione di una cultura improntata all’’uguaglianza di genere, possono contribuire positivamente al benessere delle famiglie e alle condizioni delle mamme lavoratrici.
Protagonista della riforma del congedo parentale tedesco è l’attuale Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. Madre di sette figli e all’epoca ministra della Famiglia con un governo conservatore, decise all’epoca di attuare la riforma voluta dai socialdemocratici. Ed è così che in Germania si ha diritto a 12 mesi di congedo parentale che diventano 14 se ne beneficia anche il papà (per almeno due mesi) e con una retribuzione pari al 67% dello stipendio (in un range cha va da un minimo di 300 euro a un massimo di 1800 e che si abbassa al 65% per gli stipendi medi, ovvero quelli superiori a 1200 euro).
A differenza di quanto accade nei Paesi del Nord, è curioso però notare come sono ancora pochi i papà che decidono di beneficiare dei mesi di congedo parentale, oltre ai canonici 2, in alternanza alla propria partner. Chiacchierando con una coppia di genitori italo-tedeschi che vivono a Berlino, ho scoperto infatti che la cura del piccolo e le conseguenze professionali di una prolungata assenza dal lavoro sono aspetti che riguardano quasi sempre solo la donna. È vero che i primi due mesi di vita del bambino spesso vede presenti entrambi i genitori, ma nella maggior parte dei casi sono vissuti come una piccola parentesi vacanziera per poi tornare alla vita di tutti i giorni, dove è la mamma a vivere la quotidianità del bambino. È quindi evidente che la differenza viaggia su un divario culturale, prima ancora che normativo. Nel 2002 la Francia aveva aumentato il numero di giorni per il congedo di paternità, senza però poi continuare sulla strada delle riforme per i congedi parentali. Recentemente il presidente Macron ha parlato di raddoppio del congedo di paternità da 14 a 28 giorni retribuiti, di cui i primi 7 obbligatori. È importante notare la disparità di utilizzo che viene fatto del congedo di paternità qui da parte dei lavoratori: a usufruirne sono soprattutto i papà con un lavoro stabile e i dipendenti pubblici in percentuale elevata, ben l’88%.
In Italia il congedo di paternità è una conquista recentissima. Prima del 2013 non esisteva neanche: si trattava di una sorta di congedo sostitutivo a quello materno che il papà poteva prendere solo in caso di morte o grave infermità della madre, di abbandono da parte della madre o di affidamento in via esclusiva al padre. Oggi in Italia i papà hanno diritto a 10 giorni di congedo obbligatorio retribuito. Rispetto al congedo parentale, invece, ci sono 10 mesi da ripartire tra i due genitori entro i primi 12 anni di vita del bambino. I mesi diventano 11 se il papà usufruisce di almeno tre mesi (continuativi o frazionati).
Il congedo di paternità, e più in generale la questione dei congedi parentali, è una di quelle cose che impattano diverse sfere del vivere privato e sociale. Coinvolge la salute del bambino, la salute delle mamme, specialmente dopo il parto, un diritto troppo a lungo negato ai papà, la felicità di tutta la famiglia. Ma si tratta anche di combattere la disparità di genere, di guardare ai diritti e doveri dei genitori indipendentemente dal genere stesso e dall’orientamento sessuale. E ancora, è anche questione di aiutare le donne a superare tutte le difficoltà con le quali sono costrette a scontrarsi nel momento in cui vogliono lavorare ed essere madri. Due cose che purtroppo oggi, se non si escludono a vicenda, entrano troppo spesso in conflitto. Serve un passo deciso in avanti: da parte delle istituzioni, e ancora prima, dei singoli, chiamati a essere i primi protagonisti di un cambiamento culturale.
Centrodestra
Nel programma dell’alleanza di centrodestra formata da Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia la parola “donne” compare una sola volta. Due volte invece compare la parola “madri”. La prima è inserita nel capitolo dedicato alla sicurezza, quando si richiama la necessità di “azioni incisive e urgenti per il contrasto al crescente fenomeno della violenza nei confronti delle donne”. Poi solo due accenni nel capitolo dedicato alle politiche di welfare, alla “conciliazione lavoro-famiglia per madri e padri” e alla tutela del lavoro delle “giovani madri”.
Centrosinistra
Le proposte del Partito Democratico su parità di genere e contrasto alla violenza sulle donne sono contenute nel capitolo intitolato: “Un Paese a misura di donne e giovani”. Il Pd scrive di voler fare del concetto di parità “il motore di politiche pubbliche che sostengono le donne, ne tutelano i diritti e abbattono gli stereotipi”. Le proposte principali sono quelle di un “piano straordinario per l’occupazione femminile”, del rafforzamento della legge sulla parità salariale (legge Gribaudo 162/2021) e dell’approvazione di una legge sulla co-genitorialità, per introdurre totale parità nei congedi di maternità e paternità.
Per quanto riguarda il contrasto alla violenza di genere, si sottolinea la necessità di evitare l’affidamento dei figli ai genitori violenti e di superare “definitivamente” ogni riferimento all’a-scientifica sindrome di alienazione parentale (PAS). Spazio poi ai temi della salute riproduttiva, attraverso il rafforzamento della rete dei consultori e la piena applicazione della legge 194/1978. Anche la lista Verdi-Sinistra dedica un capitolo del suo programma alla questione femminile (“L’Italia è donna”). Come per il Pd, al primo punto si trova l’adozione di un piano straordinario per l’occupazione femminile e politiche e misure efficaci per le imprese femminili. Altri punto del programma dell’alleanza sono interventi contro la disparità economica e nell’accesso alle risorse e alle opportunità; strutturazione della sicurezza sul lavoro in considerazione delle specifiche differenze tra occupazione femminile e maschile; concreta applicazione della Convenzione ILO 190 su “contrasto alle molestie, molestie sessuali e violenze sul posto di lavoro”; riconoscimento dell’indennità di caregiver.
Movimento 5 Stelle
Il paragrafo 2.8 del programma del Movimento 5 Stelle è dedicato a “Politiche di genere e diritti civili”. Largo spazio al tema del contrasto alla violenza sulle donne e ai femminicidi (formazione specifica di tutto il personale chiamato a interagire con le donne vittime di violenza; obbligatorietà all’uso di braccialetti elettronici; revisione dei reati esistenti per colmare i vuoti di tutela; percorsi di recupero per gli uomini maltrattanti; donne vittime di violenza tra le categorie fragili ex legge 68/1999). Si parla poi di “profondo rafforzamento dei servizi di sostegno alla genitorialità”, come gli asili nido e come le Tagesmutter (nidi famigliari), ma anche dei consultori e della medicina di genere. Estensione del congedo paterno obbligatorio, norma sul doppio cognome, abbattimento del lavoro part-time involontario ed equilibrio di genere negli organi costituzionali sono altre proposte contenute nel programma dei Cinque Stelle.
Terzo Polo
La coalizione tra Azione di Carlo Calenda e Italia Viva di Matteo Renzi dedica un capitolo del suo programma alle “pari opportunità”. Si punta in particolare sulla “estensione della certificazione della parità di genere per ridurre il gender pay gap” (sulla scia di quanto introdotto con il Pnrr), sul sostegno all’imprenditoria femminile (soprattutto in ambito innovativo) e sull’attuazione del “Family Act” per favorire il rientro al lavoro delle donne dopo la maternità. In tema di contrasto alla violenza sulle donne, il Terzo Polo punta sul rafforzamento del reddito di libertà e sull’approvazione del pacchetto anti-violenza “messo a punto dalle ministre del Governo Draghi”.