Storico e anglista
Ricercatrice indipendente in Storia del lavoro e Storia orale

Intervista ad Alessandro Portelli a cura di Sara Zanisi


 

Sara Zanisi – Per iniziare, come racconterebbe il suo lavoro a chi non lo conosce?

Alessandro Portelli – Prima di tutto, ricorderei che il mio mestiere è stato insegnare letteratura angloamericana all’università. All’inizio mi interessava studiare la cultura popolare e il movimento operaio degli Stati Uniti. Durante gli anni sessanta, nel nostro sistema universitario, l’unica disciplina che consentiva di studiare quel Paese era la letteratura, anche se all’interno degli studi americani ho praticato il tema della cultura popolare – scrivendo la tesi di laurea sul cantautore e folklorista statunitense Woody Guthrie – e successivamente ho indagato il rapporto fra letteratura, culture orali, memoria ecc..

Da queste prime esperienze americane e dalla conoscenza dell’opera di Barbara Dane, Pete Seeger, Bob Dylan, scaturisce la scoperta che esisteva una tradizione di lotta di classe negli Stati Uniti espressa anche attraverso la musica. Negli anni sessanta non si poteva fare ricerca sul campo negli Stati Uniti (come è avvenuto per America profonda. Due secoli raccontati da Harlan County, Kentucky, pubblicato nel 2011) e quindi mi son domandato se avevamo qualcosa del genere anche in Italia.

Entrando in contatto con Gianni Bosio, con il Nuovo canzoniere italiano e con l’Istituto Ernesto de Martino, ho iniziato a fare ricerca sul campo sulla musica popolare in Italia, soprattutto a Roma, nel Lazio e dintorni. Poi gradualmente ho iniziato ad abbandonare una dimensione etnomusicologica, scoprendo che le storie, i racconti, le memorie erano almeno altrettanto interessanti: il tema, nella sostanza, della storia orale. La motivazione è quindi più di tipo politico.

SZ – Ha già messo a fuoco in modo molto limpido il legame tra storia orale e storia militante nella sua esperienza e in più generale nella storia orale italiana. Oggi esiste ancora questo legame? 

AP – Sicuramente l’approccio alle fonti orali in Italia è nato con figure come Rocco Scotellaro, Danilo Montaldi, Gianni Bosio, Cesare Bermani, cioè dall’attenzione alla storia delle classi non egemoni, implicitamente militante anche perché, da un lato, implica un ripensamento sui soggetti della storia, e, dall’altro, perché comunque per fare storia orale è necessario uscire di casa, dall’ufficio, dall’università e muoversi, anche fisicamente. E se lo fai, significa che hai una motivazione molto forte. Oggi quello che è cambiato non riguarda tanto la dimensione della storia militante, quanto la militanza. Viviamo una crisi, un indebolimento della militanza, e quindi anche un affievolirsi di tutte quelle pratiche culturali che partono dalla militanza.

SZ – Quale opinione ha dello scenario contemporaneo?

AP – Fin dal primo momento questa pratica del lavoro sulle fonti orali, la storia orale, è stata sotto l’osservazione critica della storiografia tradizionale, carica anche di astio e pregiudizio, ma spesso poneva dei problemi reali: la credibilità, il funzionamento della memoria, il rapporto osservato-osservatore. Doversi confrontare con queste obiezioni di fondo significava dover affinare la metodologia. Più affini la metodologia e più ti avvicini a una dimensione meno ingenua e più professionale, e naturalmente la costruzione di una professionalità significa attenuare la dimensione puramente militante. In Italia la storia orale continua a rimanere molto ai margini, ma in altre parti del mondo è diventata rispettabile anche sul piano accademico diventando meno esclusiva. Non sono più i militanti e i ribelli a fare la storia orale: nel 2010, durante un workshop al convegno dell’Associazione internazionale della storia orale a Praga, ci si è chiesti se la storia orale abbia perduto o meno il suo potenziale radicale. Il potenziale radicale c’è ancora, ma non è più una pratica esclusivamente militante.

SZ – Che ne è, oggi, della storia militante?

AP – Se hai intrapreso una ricerca su qualcosa di contemporaneo, se non usi le fonti orali non fai il tuo mestiere. Non puoi fare storia solo con le fonti scritte. Si può quindi parlare di un “uso delle fonti orali in storiografia”, alla stregua di tutte le altre. Non si tratta soltanto di usare le fonti per ricostruire la storia, quanto ricostruire la storia per capire la memoria e comprendere come viene ricordata. La fonte orale non è un supplemento in integrazione ad altre fonti, ma semmai il contrario. Per citare un caso personale, per il lavoro su Terni, son partito dalle fonti orali e poi sono andato a consultare gli archivi, utilizzandoli per colmare le lacune delle fonti orali. In qualche modo ho usato le fonti d’archivio come verifica e integrazione delle mie fonti principali, le fonti orali, perché quello che mi interessava era una storia della memoria, una storia della soggettività.

SZ – Professionalizzazione della ricerca militante: parliamo della terribile esperienza di Giulio Regeni. Qual è la sua lettura della vicenda? Quali sono i rischi e i limiti di una ricerca indipendente ma strutturata nell’ambito universitario. Come vede questa relazione con la tutor e, più in generale, con l’università inglese?

AP – Credo che tutta questa responsabilizzazione della tutor e dell’università venga anche un po’ accentuata e gonfiata per compensare il fatto che non riusciamo a cavare un ragno dal buco rispetto agli egiziani, di conseguenza ci si orienta verso un obiettivo più accessibile. Non ho ben chiaro cosa l’istituzione potesse fare, salvo metterlo in guardia sui rischi che correva, che lui conosceva più di chiunque altro a Cambridge. Su questo non so molto ragionare perché personalmente la mia ricerca sulle fonti di storia orale non l’ho mai fatta inquadrato all’interno di un’istituzione, ma in autonomia, al 95% a mie spese tra l’altro. Quindi questa è un po’ la dimensione della ricerca militante.

Un altro aspetto del tipo di ricerca di cui ho esperienza diretta è che non sei responsabile nei confronti di nessuno. Una ricerca come quella che faceva Giulio Regeni era rispondere all’istituzione. Quindi credo che ci sia stato sicuramente da parte dell’istituzione una leggerezza e una mancanza di vigilanza, ma molto di più non mi sentirei di aggiungere. Però se si accetta che un ragazzo faccia una ricerca su delle realtà clandestine in un paese come l’Egitto, dovresti sapere che è pericoloso e assicurarti che ne sia a conoscenza. Trovo che in qualche modo la dimensione militante nel caso di Giulio Regeni sia stato proprio assumersi dei rischi. Il che non vuol dire che “se l’è andata a cercare” – vuol dire che era una persona coraggiosa e appassionata da ammirare.

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