Se è di particolare importanza interrogarsi sui mutamenti che il mondo del lavoro e i sistemi di welfare stanno sperimentando, pare altrettanto interessante inquadrarne l’evoluzione storica per comprendere quali siano state le principali “tappe” che hanno condotto alla odierna fase.
In tal senso è possibile individuare due periodi come termini di riferimento: la seconda metà del diciannovesimo secolo – con la istituzione delle prime forme di assicurazione sociali obbligatorie – che segna la fase di “decollo” del moderno welfare state; gli anni’70 del novecento, periodo in cui nei paesi a capitalismo avanzato si comincia a discutere della necessaria riforma dei sistemi di politiche sociali.
Forzando la complessità del fenomeno, tra queste due date si registrano 3 diverse fasi: una prima di “instaurazione” o “decollo” (seconda metà dell’Ottocento fino alla prima guerra mondiale), una seconda di consolidamento (periodo tra le due guerre) e infine quella espansiva della seconda metà del secolo scorso.
Seppur differenti per approccio ed analisi, gli studi che a partire dalla fine degli anni ’70 si centrano sulla crisi del welfare individuano un elemento comune: in questi anni, si arresta la progressiva crescita dell’intervento dello Stato in campo sociale e si passa dalla fase di potenziamento e allargamento dei diritti sociali alla fase di ‘ricalibratura’ o di vera e propria restrizione e riduzione delle tutele sociali strutturatesi – con maggiore estensione e intensità – a partire dalla seconda parte del novecento.
GLI ESORDI: LA GESTIONE STATALE DELLA PROTEZIONE SOCIALE
Dalla seconda metà dell’Ottocento che si inizia a profilare una nuova gestione statale della protezione sociale. O meglio, riprendendo le parole di Harold L. Wilensky, autore di studi pionieristici sui sistemi di welfare e sulle politiche sociali, la protezione sociale dalla fine del diciannovesimo secolo viene progressivamente ad essere intesa come un insieme di «interventi pubblici o di governo che attraverso la fissazione di standard minimi di reddito, di fabbisogno alimentare, di protezione della salute, di esigenze abitative ed educative, ecc. riconoscono a ciascun cittadino diritti e non elargizioni caritative». E’ questa, secondo il sociologo di Berkeley, «l’essenza del welfare state».
Sembra possibile caratterizzare le diverse fasi di sviluppo del welfare in base alle tipologie di intervento pubblico. La prima fase è stata caratterizzata dalla nascita degli schemi di assicurazione sociale obbligatoria. La Germania di Bismark è stata in tal senso pioniera e esempio per gli altri paesi europei. Le assicurazioni permettevano la condivisione (basata sul principio contributivo e garantita dallo Stato) di rischi tra i lavoratori assicurati per eventualità come malattie, infortuni e per la vecchiaia e invalidità. Il processo di instaurazione degli schemi durò diversi decenni e nei diversi paesi seguì fasi specifiche. Non fu un processo privo di difficoltà e contraddizioni. Il fenomeno di “statizzazione” della riproduzione sociale significò il superamento di esperimenti estremamente significativi per il movimento operaio e per la sua capacità di autorganizzazione come le società di mutuo soccorso.
I testi di Francesco Viganò e Egisto Romani si collocano in dialogo e in sintonia con i temi e le emergenze sociali propri di tutti i processi innescati dalla Seconda rivoluzione industriale. Prima di quello che noi chiamiamo welfare, è esistito un sistema autoregolato fondato sul mutuo soccorso sulle forme di risparmio popolare, caratterizzato da strutture volte alla tutela e alla formazione professionale, di cui appunto Viganò e Romani ci forniscono ragioni, forme e funzionalità.
LA NASCITA DELLA DISOCCUPAZIONE COME CATEGORIA POLITICA E SOCIALE
L’intervento dello Stato in economia che coincide in gran parte con gli anni della Prima guerra mondiale produce dei cambiamenti profondi. Uno di questi è segnato dall’introduzione degli schemi assicurativi relativi alla disoccupazione. Un tale intervento assumeva inevitabilmente una lettura della disoccupazione come fenomeno involontario. Tale lettura era contraria alla teoria economica classica e al pensiero politico egemone. Come fa notare Enrico Pugliese: «Per secoli […] il concetto di disoccupazione in pratica non esiste né nella letteratura economica, né in quella filosofica e politica, e neanche nella letteratura sulle condizioni sociali della classe operaia della rivoluzione industriale. C’è tanta gente che non ha di che vivere, ma non ci sono disoccupati: ci sono solo poveri. E tra questi poveri abbondano, ovviamente, i vagabondi e i criminali. Il disoccupato [è] povero perché idle (ozioso)».
Per giungere agli schemi pubblici contro la disoccupazione era necessario quindi che si riconoscesse istituzionalmente (e socialmente) che la precarietà e la miseria causate dalla disoccupazione non sono conseguenza della volontà dei lavoratori e lavoratrici di astenersi dalla partecipazione al mercato del lavoro. Ma piuttosto il prodotto del normale funzionamento del modo di produzione capitalistico. Dal punto di vista politico, affinché vi fosse una tale evoluzione, era fondamentale la capacità della classe operaia di proporsi come soggetto collettivo portatore di interessi specifici.
IL TRENTENNIO GLORIOSO
Nel secondo dopo guerra si entra in una nuova fase. Per un trentennio (1945-1975) progressivamente in tutti i contesti nazionali, seppur con comprensibili differenze dovute a specifiche condizioni economiche e politiche, le legislazioni del lavoro si svilupparono nel senso di una maggiore protezione contro i licenziamenti e nella direzione del più ampio riconoscimento di importanti tutele sociali e sindacali come ferie, malattie, congedi per la maternità.
Tre le caratteristiche base dei sistemi di welfare che si svilupparono in questi anni: un tipo di produzione industriale con manodopera dipendente a tempo indeterminato (modello produttivo fordista-taylorista), una gestione dell’assistenza e della cura dei soggetti non autosufficienti quasi completamente delegata alla componente femminile (occupata in questa attività pressoché a tempo pieno e in maniera gratuita); un equilibrio demografico che presentasse una sufficiente quota di popolazione attiva rispetto a quella non attiva.
Occorre notare come il periodo 1945-1975 – non a caso definito il trentennio glorioso – fu caratterizzato da una (pressoché) ininterrotta crescita economica e da una costante diminuzione della disoccupazione.
In questo periodo furono sviluppati, inoltre, interventi pubblici nel campo dell’assistenza sanitaria (fondamentale fu in diversi paesi la creazione di servizi sanitari nazionali pubblici con accesso su base universalistica) e dell’edilizia sociale. In tutti i paesi nacquero sistemi d’istruzione pubblici che andavano ben oltre l’alfabetizzazione dei cittadini, interpretando l’istruzione stessa come vettore d’emancipazione e mobilità sociale.
LE RAGIONI DELLA CRISI
Il quadro sistemico ora schematicamente presentato subisce sensibili cambiamenti dalla metà degli anni Settanta. Sommariamente: un progressivo calo dei tassi di crescita economica seguito, nei decenni successivi, dall’aumento della tecnologia applicata alla produzione, dall’espansione del settore terziario, dalla deindustrializzazione e, con tempi e modi diversi nelle varie realtà nazionali, da un aumento vertiginoso dei tassi di disoccupazione (fenomeno, quest’ultimo, variamente collegato ai precedenti); il sistema produttivo si caratterizzerà sempre più per un massiccio impiego di forza lavoro inquadrata con contratti di lavoro temporanei con scarsa capacità contributiva; la componente femminile entrerà in modo stabile a far parte del mercato del lavoro, allontanandosi così dal precedente ruolo di fornitrice di cura ed assistenza gratuita. Occorre, infine, aggiungere un ulteriore fenomeno fortemente relazionato con i sistemi di welfare e che ha coinvolto la struttura demografica dei vari paesi: in tutti i contesti nazionali è possibile riscontrare un sensibile invecchiamento della popolazione. Le cause di tale fenomeno sono rintracciabili nella forte diminuzione delle nascite e nell’altrettanto forte aumento della speranza di vita. L’invecchiamento della popolazione ha inevitabilmente fatto aumentare il cosiddetto tasso di dipendenza: il mutato rapporto tra popolazione non attiva e popolazione attiva ha avuto, com’è facilmente intuibile, forti ripercussioni sull’azione dello Stato come finanziatore delle politiche sociali.
Il mutato quadro degli anni ’70 ci conduce alla fase di ‘crisi del welfare’ che a tutt’oggi è materia di discussione.