Finanziare lo sviluppo locale è sempre più complicato e, al tempo stesso, necessario. Si sta assistendo, infatti, ad un rimescolamento profondo del mix di rischi e opportunità rispetto al quale gli operatori finanziari – in particolare gli istituti bancari – sono chiamati a definire le proprie strategie e la propria offerta. Cambia la geografia degli attori imprenditoriali, degli assetti istituzionali, dei corpi intermedi. Ma cambia anche il tessuto connettivo della socialità di base: associazionismo, partecipazione alla vita politica, ecc. Il tutto non solo per effetto di variabili contestuali (socioeconomiche, politico culturali, ambientali), ma sempre più come interazione con flussi globali che, nel loro direzionarsi, sono sempre meno piatti e sempre più attenti a cogliere le “curve di livello” rappresentate da asset materiali e immateriali che per sedimento naturale o per costruzione artificiale sono rinvenibili – e sfruttabili – solo lungo quelle coordinate che Aldo Bonomi ha definito “geocomunitarie”.
Ecco quindi alcune delle sfide per chi vuol finanziare lo sviluppo su scala localizzata.
In primo luogo la venuta meno di un modello “relazionale” del credito che negli ultimi anni ha mostrato, insieme, tutte le sue virtù di resilienza nel breve periodo e tutti i suoi limiti soprattutto in fatto di governance strategica di medio / lungo termine.
In secondo luogo il faticoso processo di change management interno alle organizzazioni finanziarie (bancarie in particolare) ha generato, da una parte, una pressione delle economie di scala attraverso fusioni e accorpamenti e, dall’altra, la necessità di recuperare un ruolo di “agenzia” capace non solo di erogare servizi “core”, ma di orchestrare diversi attori e risorse nell’ambito di progetti di sistema.
In terzo luogo l’affermarsi di processi di disintermediazione attraverso piattaforme che mobilitano risorse donative (crowdfunding) e finanziarie (social lending, microcredito) al di fuori dei circuiti tradizionali, misurando la loro efficacia rispetto all’impatto generato su progettualità d’impresa altrimenti non (facilmente) “bancabili”.
Questo dinamismo a livello di segmentazione e di riposizionamento dell’offerta è legato alla necessità di rifasarsi su una domanda non solo finanziaria in senso stretto, ma di risorse per lo sviluppo in senso lato che è profondamente mutata nelle forme di espressione e di soddisfacimento. Il caso del terzo settore, in particolare della sua componente imprenditoriale (cooperazione sociale e altri modelli di impresa sociale), è emblematico in tal senso.
Da una parte molti osservatori e policy maker lo identificano come un player importante, sempre meno periferico rispetto alle istituzioni dominanti di Stato e mercato, soprattutto se la partita si gioca a livello locale. D’altro canto permane una certa parsimonia da parte di questi attori nell’acquisire risorse finanziarie per finanziare progetti consistenti in termini di creazione di ricchezza, occupazione e coesione sociale, ricorrendo non solo all’autofinanziamento e rispondendo non esclusivamente a necessità contingenti di gestione ordinaria (ad esempio alimentare il cash flow in tempi di pagamenti ritardati da parte di clienti importanti come la PA). Da qui l’utilizzo di metafore come “il cavallo che non beve” o “il cactus eccessivamente annaffiato” che, in modi diversi, restituiscono le ambivalenze del rapporto tra finanza e terzo settore su progetti di sviluppo locale. A questi fattori di natura strategica e manageriale si sommano poi opzioni di natura valoriale e di “sentiment” legate alla reputazione della finanza mainstream che quindi in campo sociale tende a segmentarsi sia a livello di cultura di riferimento (secondo criteri di eticità) che di specializzazione funzionale ed operativa (banche, divisioni settoriali, ecc.).
È necessario quindi individuare un “punto di caduta” per evitare che il dibattito si risolva in schermaglie ideologiche e che l’offerta di denaro venga effettivamente guidata in modo consapevole verso un reale “impatto sociale”, riducendo le possibilità che non venga del tutto utilizzata. Un rischio che diventa ancor più evidente a fronte di una domanda di welfare (assistenza, cura, educazione, ecc.) che tende a dilatarsi oltre i tradizionali centri di servizio (ospedali, scuole, ambulatori, ecc.) e a incorporarsi entro strutture diverse (i luoghi di lavoro, l’abitazione, gli spazi ricreativi e culturali, ecc.).
La finanza (in particolare quella di debito) e il terzo settore (in particolare quello che assume una esplicita veste d’impresa sociale) possono trovare quindi un importante punto di convergenza nella co-progettazione e co-finanziamento di una nuova classe di infrastrutture sociali.
Spazi rigenerati perché in precedenza erano abbandonati o sottoutilizzati (sleeping asset), ma anche (e soprattutto) perché concentrano e accelerano le risorse-chiave per un nuovo ciclo di sviluppo “place- based”: l’advocacy della nuova cittadinanza attiva che contribuisce a ridefinire il paniere dei beni e dei servizi che vengono riconosciuti, nei fatti, come di “interesse generale”; l’utilizzo diffuso di metodi di service design che abilitano modelli di coproduzione attraverso piattaforme digitali e “punti di contatto” analogici garantendo un’offerta diffusa, accessibile ed economica di facilities per la vita quotidiana e generando in modo intenzionale esternalità di natura relazionale legate a un autentico “piacere di condividere”; la capacità di intercettare le economie esterne di flussi globali che, come ricordato in precedenza, sono sempre più “consapevoli” nel premiare le value chain localizzate che sanno incorporare in via stabile e continuativa elementi di coesione sociale e di sostenibilità ambientale.
Il carattere paradigmatico di questa trasformazione socioeconomica richiama la necessità di una riformulazione profonda del business finanziario chiamato sempre più ad interagire e ad integrarsi con risorse filantropiche e contributive; a specializzarsi in percorsi di accompagnamento alla definizione di business model compatibili con leve finanziarie, anche minime; alla necessità di individuare elementi di garanzia che eliminino, o almeno attenuino, i fattori di rischio quando l’investimento coinvolge intere comunità e/o soggetti fragili. Tutto questo con l’obiettivo di dotarsi non di qualche singola “buona pratica”, ma di un vero e proprio “progetto Paese” che sappia fare scaling rispetto a infrastrutture sociali in chiave multi locale, ricercando il difficile equilibrio tra esigenze di diffusione, in particolare nei contesti meno dotati, e, al tempo stesso, necessità di adattarle a condizioni di contesto mutevoli sia in termini di necessità che di risorse.