Dalla rubrica, Il lavoro delle donne
Proponiamo qui un estratto del volume La povertà. Eredità del passato, certezza del presente, incognita del futuro di Enrica Morlicchio.
L’attenzione data alle informazioni statistiche congiunturali sull’andamento della povertà e la lettura spesso strumentale che ne è stata fatta, a sostegno o contro specifiche misure di politica sociale, ha alimentato un dibattito occasionale che ha fatto perdere di vista le tendenze e le trasformazioni più profonde del modello italiano di povertà, alimentando l’illusione che sarebbe stato sufficiente un cambiamento della situazione economica internazionale, o anche soltanto nazionale, per risolvere il problema. Le cose non sono purtroppo così semplici. Prendiamo ad esempio l’in-work poverty, la povertà di chi un lavoro ce l’ha ma vive in famiglie povere, a prescindere dal suo reddito personale. Come certificano gli ultimi dati EUROSTAT basati sull’indagine EU-SILC, l’Italia è uno dei paesi europei in cui il rischio di vivere in una famiglia povera nonostante si abbia una occupazione è tra i più alti: nel 2017 esso riguarda il 12,2% degli occupati, un valore che è sì inferiore a quello della Romania dove il 17,4% degli occupati adulti si può considerare povero, della Spagna con il 13,1% e della Grecia, con 12,9%, ma ben al di sopra di paesi come Francia, Germania e Regno Unito dove la quota di lavoratori poveri non supera il 10%. Anche il fenomeno dell’in-work poverty andrebbe valutato dunque tenendo conto di alcuni elementi di complicazione che poco o nulla hanno a che fare con la crisi e cioè che a) già prima del 2008 era al di sopra del 10%, b) che è un valore medio di una situazione fortemente differenziata sia tra i diversi segmenti della forza lavoro, sia tra le diverse regioni, sia tra maschi e femmine; c) che riflette da un lato la persistenza del lavoro nero o “grigio” nei settori tradizionali dell’edilizia e del terziario povero, soprattutto al Sud, dall’altro il peggioramento della condizione salariale degli operai comuni e specializzati un poco ovunque; d) e che infine si somma al peggioramento della condizione economica degli impiegati e dei lavoratori autonomi provenienti dal variegato universo del lavoro a partita Iva, caratterizzati dalla volatilità dei redditi e da minore o nessuna tutela di cassa integrazione e indennità di disoccupazione. Vale la pena anche notare come nel decennio 2008-2017 mentre per i lavoratori dipendenti del settore centrale aumentava il rischio di scivolare nella condizione di working poor o di pura e semplice disoccupazione, le loro mogli si sono date da fare nel trovare una occupazione, particolarmente negli interstizi di un terziario povero e poco tutelato. Ciò tuttavia non ha comportato un aumento delle famiglie con due o più occupati, la cui incidenza rimane bassa in Italia: 44,6%, risultato della media tra il 54,3% del Nord, il 48,9% del Centro e solo il 29,3% del Sud, dove la percentuale è di quattro punti inferiore a quella degli anni ante-crisi. Vi è stato piuttosto un effetto di sostituzione delle famiglie con unico salario maschile quale entrata familiare (le classiche male breadwinner households) con le famiglie a salario femminile (female breadwinner households), che è stato particolarmente accentuato proprio nel Mezzogiorno, riguardando soprattutto madri in coppia, per lo più con figli, il cui numero è quasi raddoppiato tra il 2008 e il 2014. Al contempo è aumentato il numero di famiglie in cui tutti i componenti in età di lavoro sono in cerca di occupazione: in termini assoluti, in Italia il loro numero è passato da 710.000 a 1.070.000 famiglie con un incremento ancora una volta sensibilmente superiore nel Mezzogiorno (+66%) rispetto al Centro-Nord (+34%). Il salario delle donne che hanno trovato una occupazione durante la crisi non ha avuto dunque natura di reddito aggiuntivo, ma è divenuto la principale fonte di sostentamento familiare. Questo non è un fenomeno solo italiano. Le studiose femministe lo hanno definito a livello internazionale “femminilizzazione della riproduzione sociale”. Questo tipo di centralità femminile nelle strategie familiari di sopravvivenza non è senza conseguenze sul piano della povertà. Se per le donne più istruite e con occupazioni meglio remunerate rappresenta un fattore indiscusso di individualizzazione, per quelle con collocazioni meno favorevoli e maggiori carichi familiari comporta forti rischi di impoverimento per sé e per i figli.