Pubblichiamo un estratto del testo di Eva Cantarella proposto nel volume digitale Patrimonio immateriale: mestieri e culture che fanno futuro. Mappa di un domani sostenibile tra tradizione e innovazione
La Convenzione approvata nel 2003 dalla Conferenza Generale dell’UNESCO e ratificata dall’Italia nel 2007, descrive il patrimonio culturale immateriale come “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”.
Se dovessi trovare una parola capace di esprimere un argomento di questa portata, potrebbe venirmi in soccorso la parola greca paideia: una parola celebre, paideia, abitualmente tradotta con educazione, insegnamento, formazione, ma che è qualcosa di più, di diverso da quello che indicano oggi questi termini. La paideia, infatti, era la socializzazione degli individui (non solo i più giovani) a un insieme di valori, di precetti e di pratiche la cui trasmissione di generazione in generazione era considerata compito del cittadino. In buona sostanza, era l’apprendimento e al tempo stesso l’insegnamento e la trasmissione del patrimonio immateriale dei Greci. Insegnamento e trasmissione che allora – questo mi pare il punto più interessante – non era trasmesso solo nei luoghi a ciò deputati (la famiglia e le scuole di ogni ordine e grado). Se avessimo il tempo di entrare nei particolari potremmo spiegarne le ragioni: in un mondo in cui i padri erano impegnati a tempo pieno nel mestiere di cittadino e le madri, salvo eccezioni, erano totalmente ineducate e prive di qualunque pratica di mondo, il ruolo educativo della famiglia era assolutamente secondario. E le scuole, in Grecia, per molti secoli, furono inesistenti. Ma, in breve, limitiamoci a dire che il luogo per eccellenza della paideia era la vita civica, nell’ambito della quale ogni cittadino trasmetteva di generazione in generazione la memoria storica delle credenze, dei valori e delle regole di comportamento attraverso le pratiche di vita e l’esempio. Una considerazione che mi ha fatto pensare a quanto sia importante riflettere sul ruolo svolto – in aggiunta a quello oggi affidato dalle istituzioni a ciò deputate – da un’educazione civica veramente intesa come dovere e compito del mestiere di cittadino.
Se il mondo antico non ha molto da insegnarci in materia di tutela di paesaggio e ambiente, il consumo del cibo aveva sin dall’antichità una importantissima funzione, sulla quale vale la pena soffermarsi.
Non penso al consumo quotidiano, individuale del cibo e neppure alla sua condivisione in famiglia. Penso ai famosi simposi, gli incontri serali ai quali, in Grecia, veniva invitato a partecipare un numero di regola limitato di persone, rigorosamente maschi e cittadini, per trascorrere la serata mangiando, ascoltando canti di poesie liriche accompagnate dalla musica e composte al fine di essere lette in quelle occasioni (ad esempio, per citare i lirici più grandi, da Alceo ad Anacreonte a Teognide), assistendo a spettacoli di danza e a esibizioni di acrobati, e infine passando al momento clou della serata. Quello durante il quale, terminato il consumo del cibo, si cominciava a bere il vino e s’iniziava a discutere un argomento scelto in precedenza (di alcuni siamo a conoscenza grazie ai Dialoghi di Platone): cosa è la giustizia, ad esempio; oppure: il bene può o non può essere insegnato?
Conversazione che si svolgeva secondo un ordine di interventi precedentemente stabilito, il cui rispetto era affidato a un “simposiarca”, il capo della serata, al quale spettava tra l’altro il compito di fissare il numero delle coppe di vino da bere e le proporzioni della mescolanza tra vino e acqua. I Greci, infatti, non bevevano mai vino puro. Il loro vino era molto alcolico, a causa della vendemmia tardiva, dopo la caduta delle foglie, quando, come dice Catone nel De agricoltura, il vino era percoctus. Bere vino puro, dunque, portava molto facilmente all’ubriachezza, che i Greci ritenevano indegna di un uomo civilizzato. Solo i barbari (per definizione incivili, per loro) bevevano fino a ubriacarsi, da cui l’espressione popolare “bere alla scita”, come gli Sciti, vale a dire appunto come dei barbari. Ma nonostante l’orrore per l’ubriachezza, i greci consideravano il vino un dono divino, fatto ai mortali da Dioniso. E come tale, se bevuto con misura ne conoscevano e celebravano i beni, e la felicità che portava: “è il vino che rivela lo spirito di un uomo”, scrive Alceo, nato attorno al 620 nell’isola di Mitilene, contemporaneo di Saffo “crine di viola”, come egli la chiama. E in un frammento di Eschilo conservato in Ateneo leggiamo che “il bronzo è lo specchio dell’apparenza, il vino lo specchio dell’anima.” Due soli esempi, tra i tanti che potrebbero essere fatti. Il problema, dunque, era evitare le conseguenze negative del vino: e a insegnare ai mortali come evitarle era stato lo stesso dio che ne aveva fatto loro dono. Era Dioniso infatti che aveva insegnato agli uomini le regole della mescolanza, il necessario rapporto vino-acqua che secondo Anacreonte (nato nel 570 a.C.) consisteva in una parte di vino e due di acqua. Il simposio insomma era un vero e proprio rito, al tempo stesso sociale e religioso (prima che avesse inizio si celebrava un solenne sacrificio agli dèi), nel corso del quale si sperimentavano i diversi piaceri della vita e si imparava quella misura che era la regola di vita dei Greci. La mescolanza del vino e dell’acqua, che consentiva di non superarla, era una specie di simulazione di un’esperienza sociale e psicologica fondamentale nella via delle società aristocratiche, una specie di sperimentazione sociale di una morale il cui ideale non era né l’ascesi, né la frustrazione. Realizzando l’ideale dell’equilibrio e della misura, il simposio è strumento della paideia, dell’educazione civica dei Greci.
Un esempio concreto di una delle forme di quella educazione civica diffusa, della quale la tradizione classica ci tramanda il ricordo. Non perché, ovviamente a quelle pratiche e a quegli ideali si debba tornare, ma perché è alla sua eredità – come ho cercato di mostrare – che dobbiamo la disponibilità ad accettare la presenza di concezioni diverse del mondo. La classicità ha conosciuto la civiltà della vergogna degli eroi omerici e la cultura della colpa di Edipo; il materialismo della scienza ionica e lo spiritualismo di Platone. Per questo – per il suo essere testimone di culture e identità diverse e contrastanti – essa ci educa alla diversità: il che non significa, sia ben chiaro, idealizzare quel passato. Significa semmai che dimenticarlo vuol dire perdere pezzi della nostra identità. Significa che richiamarsi a essa può contribuire alla costruzione di un’identità capace di resistere alla tentazione di un pensiero unico, quale che esso sia, e al consolidamento di un’identità aperta al confronto con culture diverse.