Quarant’anni dopo quel 2 agosto, come per molte altre date tragiche della storia italiana attuale, non sappiamo tutta la verità (chi volesse un aggiornamento, anche sintetico, può leggere le utili pagine che Vito Zincani ha dedicato alla strage di Bologna nel libro L’Italia delle stragi, Donzelli; chi volesse andare più a fondo può vedere la dettagliata ricostruzione che Valerio Cutonilli e Rosario Priore hanno dato anni fa di quella storia, in un libro significativo, che forse, ha un titolo anche scontato, quando si parla di stragi: I segreti di Bologna, Chiarelettere)

Abbiamo alcune cose certe, ma non sono comunque sia sufficienti, da sole, a darci tutte le risposte, o almeno quelle che rendono ricostruibile il corpo complessivo della scena.

Certo, possiamo dirci che l’Italia democratica – benché ferita, e non senza contraddizioni – allora ce l’ha fatta.

Quello che dobbiamo sapere e ricordare indubbiamente è che quell’Italia ce l’ha fatta anche per noi, oggi, qui, che quarant’anni dopo siamo ancora a chiederci perché e a non sapere tutto.

Eppure, se ha un valore tornare su quelle scene, oggi, oltre la domanda ineludibile di sapere, quel nostro ritorno non deve dimenticare ciò che dobbiamo alle vittime. Perché quelle persone non ce l’hanno fatta. E non è stata una loro scelta.

Nelle rievocazioni di quella strage, la più consistente per le vittime coinvolte (furono in tutto 85 i morti e più di 200 i feriti), un nome è tornato spesso al centro: quello di Maria Fresu.

Maria Fresu, 24 anni, un metro e quarantotto, quel giorno era vestita con una gonna a fiori su sfondo azzurro e una maglietta azzurra. Così la ricorda la sua amica, Silvana Ancillotti. Di lei noi non abbiamo che una carta di identità, una valigia, un corpetto:

E il nome di Maria Fresu
continua a scoppiare
all’ora dei pranzi
in ogni casseruola
in ogni pentola
in ogni boccone

in ogni
rutto – scoppiato e disseminato –
in milioni di
dimenticanze, di comi, bburp.

Andrea Zanzotto

 

Andrea Zanzotto include questa breve composizione nella sua raccolta Idioma che pubblica nel 1986.

Maria Fresu, assieme alla figlia Angela di 3 anni, la mattina del 2 agosto 1980, alle ore 10.25, si trovava alla stazione di Bologna.

È l’unica vittima della strage il cui corpo non è stato mai ritrovato. Di lei – come i corpi di molte altre stragi e per i genocidi della nostra contemporaneità – rimane solo il nome.

Nomina nuda tenemus.

I nomi, dunque. L’obbligo di ripeterli diventa l’unica procedura che stabilisce una possibilità di memoria. Quando si voglia ricordare, quei nomi sono appunto l’unica traccia di una vita esistita.

È questo che vuole sottolineare Andrea Zanzotto quando dice che il nome di Maria Fresu “continua a scoppiare”. “Continua a scoppiare” per non arrendersi al destino che altrimenti è di oblio.

Insieme a quel nome oggi è importante ricordare un’altra cosa, quarant’anni da allora.

Poco dopo lo scoppio della bomba a Bologna, lentamente molte persone vanno verso la stazione perché intuiscono che qualcosa è accaduto e non si può rimanere a casa.

Non li muove la curiosità: forse li motiva la sensazione di essere stati catapultati ancora una volta dentro una scena cui si deve rispondere testimoniando la propria compostezza. In ogni caso, quel giorno non ci sono urla o proteste. Ci sono persone che decidono di esserci, che sentono il dovere di fare qualcosa, Non si trattava di riempire un vuoto, ma di testimoniare una scelta: così per il trasporto dei feriti, dove essenziali furono le auto private, i taxi e gli autobus del servizio pubblico. La scelta di rispondere come comunità.

La protesta, il senso di terrore arriveranno dopo.

Si trasformeranno in domande pressanti, in richiesta di verità, in diritto di sapere, in un’Italia ormai da tempo abituata a ricevere solo “verità a metà”. Comunque storie a frammenti e in cui ci sono ogni volta troppi punti oscuri, troppi non detti, troppi omissis.

In quella piazza, forse per la prima volta, diventa chiaro che il diritto di sapere non è un dato politico, ma è semplicemente il modo di non venir meno a un patto civile.

Come molte altre volte è capitato nella storia dell’Italia attuale (o almeno in quella degli ultimi cinquant’anni), quella verità ha sempre fatto fatica a emergere.

A quarant’anni di distanza non c’è ancora una ricostruzione certa di chi ha eseguito la strage, dei mandanti, delle eventuali connessioni, non solo con il mondo della eversione italiana.

Resta il dato della piazza. Che ogni anno in un tempo di esodo per le vacanze, vede invece una città lì, presente, ancora a chiedere verità.

Ma soprattutto resta la necessità di raccontare una storia.

Quaranta anni dopo vuol dire complessivamente che i protagonisti non sono solo quelli che c’erano. Il punto, come per molte altre cose che si consegnano irrisolte alla generazione «doppiozero» del nostro Paese, è fare in modo che una generazione che allora non c’era – e, dunque, non ha una memoria visiva di quanto è accaduto – assuma su di sé il carico di far fare a quella storia ancora un pezzo di strada.

Una generazione che deve ereditare una storia e che, appunto, ha solo i nomi per raccontare. Non è molto, ma non è nemmeno poco.


Dal Patrimonio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli due testimonianze comparse su “L’Unità” e “Lotta continua” dopo la Strage di Bologna.


Unità, 3 agosto 1980,
documento tratto dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
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Da Lotta continua
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