Non solo storia – Calendario Civile \ #14febbraio 1921
Quest’anno è stato ricordato da innumerevoli luminari e da politici nostalgici il centenario della nascita del Partito comunista (il PCd’I). Eppure, quest’anno ricade anche il centenario della nascita di un personaggio politico appartenente al movimento operaio, al quale non è stata certamente rivolta la stessa attenzione da parte del dibattito teorico, anche se sembra essere in atto un nuovo e particolare interesse per i suoi studi e le sue esperienze pratico-politiche. Se extra ecclesiam nulla salus, bisogna d’altro canto riconoscere il valore delle eresie anche e soprattutto a distanza di decenni, in particolare se concorrono a una generale rielaborazione critica della scienza marxiana negli sviluppi politici contemporanei.
Ebbene, il 14 febbraio di cento anni fa nasceva a Roma da una famiglia di origine ebraica Raniero Panzieri, militante e dirigente socialista sin dal 1944 e precursore della stagione operaista italiana sin dal 1958. Certo, i «Quaderni rossi» vengono fondati nel 1961, ma è il 1958 l’anno che simboleggia la rottura ufficiale con le organizzazioni storiche del movimento operaio, poiché furono pubblicate sulla rivista del Partito socialista «Mondo Operaio» le Sette tesi sulla questione del controllo operaio, le quali sancirono un punto di non ritorno nella travagliata biografia politica di Panzieri fungendo da autentica rivoluzione epistemologica. La pubblicazione delle Tesi, con la meticolosa analisi rivolta al neocapitalismo in nuce e con la proposta politica del controllo operaio, può sicuramente essere definita come la «risposta di sinistra», secondo la terminologia usata da Stefano Merli, che Panzieri faticosamente ricercava dopo l’exploit della crisi storica del movimento operaio italiano (1955-56).
L’uscita a sinistra dalla crisi staliniana, seguendo l’idea di Panzieri, avrebbe dovuto coinvolgere i partiti della classe operaia, i quali però stavano intraprendendo percorsi differenti dopo il «trauma del ‘56», che giustamente Sandro Mancini identificherà come una svolta «riformista» nonché «vera vincitrice della crisi del ’56».[1] Oltre all’abisso strettamente politico che separava la classe operaia – la nuova classe operaia – dalle organizzazioni di classe, il cui momento di assoluta criticità viene correttamente identificato nella sconfitta della Fiom alla «fortezza Fiat», l’impreparazione teorica del movimento operaio nei confronti delle trasformazioni che avevano rivoluzionato la grande fabbrica, l’introduzione della tecnica, spinse Panzieri e una generazione di «marxisti critici» ad analizzare scientificamente quella che risultava una nuova organizzazione del processo produttivo, fagocitante il lavoro vivo nella complessità dei mezzi di produzione automatizzatisi: ecco allora l’importanza dei «Quaderni rossi».
La rivista di classe fondata a Torino nel 1961, la quale rappresenta la prima reale esperienza del neomarxismo italiano, assume un’importanza decisiva non solo in quel contesto storico circoscritto, ma soprattutto proiettata negli sviluppi economici e sociali dei nostri tempi. I «Quaderni rossi» hanno attuato contemporaneamente un’operazione teorica e politica demistificatoria, poiché da una parte hanno il grande merito di aver affrontato tematiche decisamente innovative e piuttosto sottaciute nell’ambiente del marxismo teorico e da un’altra riattualizzano costantemente la lezione della democrazia diretta, cioè dell’esperienza storica consiliarista, quella dei soviet, dei consigli e degli arbeiträte spartachisti. In particolare, Panzieri compie una vera e propria demistificazione teoretica delle concezioni social-comuniste che comprendevano l’uso della tecnologia come un processo funzionale alla liberazione delle obsolete fatiche operaie, difendendone strenuamente l’affermazione in fabbrica per un concreto miglioramento delle condizioni della forza-lavoro. Ovvero, Panzieri riesce a constatare che l’organizzazione scientifica della fabbrica automatizzata annullava completamente la funzione viva dell’operaio, esaltando esclusivamente il lavoro oggettivato e riducendolo consequenzialmente a mero macchinario del processo produttivo.
Gli studi panzieriani durante l’attività torinese dei «Quaderni rossi» si spingono molto in avanti e si confrontano con l’evoluzione dei processi sociali e dei conflitti di classe scaturiti dal neocapitalismo dei primi anni Sessanta, quasi come una metodica applicazione della formula marxiana par excellence prassi-teoria-prassi. Infatti, fu Genova 1960, ossia la manifestazione pratica dell’emergere di una soggettività operaia diversa dai precedenti storici, a indurre definitivamente il militante socialista all’elaborazione teorica indagante la dinamicità strutturale neocapitalistica e la nuova composizione di questa classe, dotata di «une force entièrement nouvelle»[2]. Ma fu nuovamente la prassi a impegnarlo in un nuovo e intenso lavorio teorico propedeutico alla formulazione matura dell’interpretazione panzieriana della scienza marxiana, cioè la rivolta di piazza Statuto del 1962, la quale condusse Panzieri alla scoperta del “piano” e al conseguente approdo alla metodologia conricercante, sancendo una rottura epistemologica con il filosofo Mario Tronti.
Dal 1961 al 1964 Panzieri smascherò la poliedricità del processo capitalistico, che lungi dall’apparire un sistema economico “straccione” e “stagnante”, permeava in realtà feticisticamente l’intera società civile modellandola a sua immagine e somiglianza: questo ragionamento individuava il passaggio dell’organizzazione capitalistica dalla fabbrica alla società. Questo nuovo modello di sviluppo integrava alla funzione di produttore quella di consumatore, superando la logica anacronistica del raggiungimento dei massimi profitti in tempi ravvicinati ed esaltando invece la visione della ricchezza come strumento e del potere come fine.
Le tematiche affrontate da Panzieri occupano uno spazio temporale piuttosto breve e possono essere considerate come una chiave di lettura aperta per l’analisi degli sviluppi sociali del «miracolo economico» italiano, ossia non definitiva, dal momento che il militante socialista morì improvvisamente nell’ottobre 1964 lasciando in sospeso i recenti studi elaborati con il gruppo redazionale-militante dei «Quaderni rossi». Prendiamo in considerazione la critica all’uso neutrale della tecnologia nella sfera chiusa della fabbrica, ma altresì la concezione del ruolo centrale che ricopre l’uso tecnologico e scientifico tout court negli attuali rapporti di produzione capitalistici; pensiamo alla riscoperta marxiana dei diversi libri del Capitale e alla pericolosità che assume l’elemento pianificatorio per la stabilizzazione del sistema economico, garantendo oltre che lo sviluppo dello stesso, soprattutto la prospettiva dell’integrazione della classe nei rapporti privati di produzione e la mistificazione della radice del processo produttivo. A tal proposito, che rapporto si instaura tra la valenza teoretica del pensiero panzieriano e l’evoluzione del modo di produzione capitalistico nella società post-industriale storicamente determinata?
Risulta noto tra gli studiosi contemporanei, e non solo, che i recenti sviluppi economico-sociali sono stati dominati dal cosiddetto fenomeno della «deindustrializzazione». Meno noto, invece, è comprendere in che modo la dinamicità del capitalismo odierno assolve ugualmente la funzione di sottrarre costantemente plusvalore alle innumerevoli raffigurazioni di forza–lavoro nella società occidentale dei nostri tempi. Sembrerebbe palesarsi, invero, un’organizzazione produttiva in grado di congiungere la dialetticità della sfera produttiva con quella distributiva, ultimando una generalizzazione del concetto di fabbrica sull’intera società civile. Pertanto, il tentativo di riattualizzare le potenze assiologiche di Panzieri si configura come un’operazione scientifica propedeutica all’indagine concreta del periodo storico presente, allontanandosi da un mero revival nostalgico concentrato sulla figura del militante socialista e teorico operaista. Sicuramente, ritorna ancor più attuale l’esigenza di una metodologia conricercante per analizzare oggettivamente, ossia scientificamente, le trasformazioni strutturali e l’evoluzione del soggetto produttore, così come Panzieri proponeva – un mese prima di morire – all’attenzione del dibattito teorico marxista con l’«Uso socialista dell’inchiesta operaia», identificabile come una specie di trait d’union tra le astrazioni determinate e gli elementi costitutivi del presente concreto. Seguendo il filo logico di questo ragionamento teso ad interrogare il presente, e quindi il tentativo di afferrare l’evoluzione della fabbrica nella nostra contemporaneità, si afferma indissolubilmente l’eredità politica del pensiero panzieriano, le indicazioni prospettiche e strategiche concernenti il recupero della valenza della democrazia diretta e socialista non solo all’interno dei luoghi della produzione, ma anche all’interno di un confronto critico-dialettico con la democrazia neoliberista plasmante gli attuali rapporti sociali.
[1] S. Mancini, Socialismo e democrazia diretta. Introduzione a Raniero Panzieri, Dedalo Libri, Bari, 1977, p. 77.
[2] Così scrisse Danilo Montaldi commentando i fatti di Genova sulla rivista francese «Socialisme ou Barbarie» in quello stesso luglio 1960.