Di Andrea Zucca, ricercatore di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Sapere
Il mondo cambia e continuerà a farlo, chiamando tutti gli attori della società a un processo di adattamento alle evoluzioni in atto e all’acquisizione di nuovi saperi, conoscenze e competenze che permetteranno alla cittadinanza di adattarsi alle trasformazioni che interessano gli attuali sistemi economici e sociali.
Il punto di partenza per qualunque attività finalizzata a un adattamento dei tradizionali modus operandi della nostra società deve avvenire dunque a partire da una piena consapevolezza delle sfide che la società del 21 secolo si trova ad affrontare. Sebbene la Quarta Rivoluzione Industriale rappresenti il contesto di riferimento per indagare il tema delle competenze che il mercato del lavoro richiede, essa non può rappresentare l’unico framework a partire dal quale svolgere riflessioni connesse a questa tematica. Dobbiamo ragionare in termini più olistici per comprendere in una logica di trasversalità e integrazione tutte le sfide ambientali, economiche e sociali, di cui l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite è massima espressione, e che chiamano, al pari del progresso tecnologico, lo sviluppo di nuove competenze.
Una seconda premessa ci viene insegnata dalla storia. Le profezie della sostituzione del gesto produttivo umano con un’entità meccanica, che oggi desta grande preoccupazione quando si parla di Quarta Rivoluzione Industriale, sono molto antiche. Già a quel tempo, i classici dell’economia come David Ricardo sostenevano tale tesi. Nel suo Sui principi di economia politica e della tassazione Ricardo affermava che se l’impiego delle nuove tecnologie (e quindi di una nuova tecnica di produzione) assicura gli stessi profitti della tecnica precedente, anche se con una produzione minore, allora il capitalista può ritenersi soddisfatto, mentre i lavoratori risultano danneggiati da quella che l’autore chiama “disoccupazione da meccanizzazione”.
David Ricardo, Sui principi di economia politica e della tassazione. La fonte è conservata nel patrimonio bibliografico di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
È vero, sicuramente alcuni lavori scompariranno, come accaduto in passato, ma è altrettanto vero che di nuovi ne nasceranno portando con sé la richiesta di nuove competenze. Se un’economista del 21 secolo si fosse teletrasportato indietro nel tempo, nel 1900 nel Nord America, e avesse riferito a un contadino che nei successivi 100 anni l’occupazione agricola sarebbe crollata dal 40% al 2% solo per via di un aumento produttivo indotto dalla tecnologia, nessuno sarebbe stato in grado di prevedere e affermare che il progresso della società avrebbe portato nel 21 secolo alla creazione di nuovi settori di mercato, ad esempio quello delle app, e di nuove professioni. Evitiamo dunque di utilizzare l’avvento predominante della tecnologia come alibi per non scommettere sull’ingegnosità umana nel promuovere altri lavori, crescita, sviluppo e progresso.
Vincere la paura di una disoccupazione di massa
La paura di una disoccupazione tecnologica di massa potrebbe essere di fatto infondata. Come ci spiega Stefano Scarpetta, Direttore dell’Occupazione, del Lavoro e degli Affari Sociali solo il 9% dei lavori è a rischio di automazione nei prossimi 15-20 anni. È questo il dato che emerge in una ricerca condotta a livello dei Paesi OCSE e che ribalta le stime allarmanti sollevate dai ricercatori Frey e Osborne nel loro rapporto “The Future of Employment”: il 47% dei lavori negli Stati Uniti potrebbe scomparire.
All’automazione di quel 9% dei lavori si deve poi aggiungere il fatto che il mercato del lavoro è sempre più caratterizzato da disuguaglianze a causa del fenomeno di polarizzazione, tale per cui i lavoratori che detengono competenze digitali svolgono professioni ad alto valore aggiunto, ben retribuite e con ottime prospettive di carriera, rispetto a coloro che hanno competenze digitali di base e che si trovano a ricoprire posizioni lavorative a basso valore aggiunto. Questo fenomeno rischia di crescere se teniamo in considerazione, sempre sulla base delle stime condotte dall’OCSE, che il 25% dei posti di lavoro rimarranno, ma più della metà delle mansioni potranno essere svolte dalle macchine, con la conseguenza che i lavoratori dovranno aggiornare le proprie competenze per essere risorse di valore aggiunto per il mercato del lavoro.
Futuro del lavoro e competenze: le sfida della diseguaglianza e dell’apprendimento continuo. Intervista a Stefano Scarpetta
Rimettere al centro l’uomo nell’era delle macchine: le human skills più utili che mai
Non si tratta solo di aggiornare le proprie competenze tecnico professionali, bensì di riconoscere l’importanza e la necessità di investire sulle soft skills, proprio perché rappresentano quelle competenze distintive dell’essere umano che difficilmente potranno essere automatizzate dalla tecnologia e che consentono all’individuo di essere potenzialmente collocabile su più professioni. Rimettere al centro l’uomo in un mercato del lavoro sempre più digitale significa quindi riconoscere il lavoro come una dimensione in cui la creatività umana, il pensiero critico, l’intelligenza emotiva e il talento individuale rappresentano e rappresenteranno, anche negli scenari più foschi, dei fattori critici di successo per lo sviluppo di soluzioni e innovazioni utili a una crescita inclusiva ed equa della società.
Assieme alla cultura del “saper fare” – e a una conoscenza del linguaggio digitale, che se non posseduto costituisce un problema di alfabetizzazione in quanto rappresenta l’equivalente di ciò che leggere, scrivere, e fare di conto ha rappresentato nel secolo scorso – la vera sfida è quella di rimettere al centro la cultura del “saper essere” a partire dalla quale definire una nuova infrastruttura cognitiva e di linguaggio capace di fornire il giusto peso e riconoscimento a questa tipologia di competenze.
Come ci spiega infatti Matteo Flora, fondatore di The Fool, le abilità sociali, seguite da quelle metodologiche e personali, sono tra le competenze trasversali e sociali più richieste dagli annunci lavorativi. Tra le competenze sociali, ovvero quelle legate all’adeguata comprensione e utilizzo da un punto di vista cognitivo, affettivo e funzionale delle regole di interazione sociale, emergono come più rilevanti il team work (disponibilità a lavorare e collaborare con gli altri), la leadership (capacità di condurre e motivare gli altri) e la capacità comunicativa (trasmettere e condividere in modo chiaro e sintetico idee e trasformazioni con i propri interlocutori, ascoltarli e confrontarsi). In relazione alle competenze metodologiche la manualità, l’abitudine, la ripetitività sono sostituite da creatività, pensiero critico, inventiva, proattività, flessibilità, apprendimento dinamico, intelligenza emotiva e problem solving. Da ultimo la gestione dello stress e ancora una volta del problem solving risultano le competenze personali più richieste. Di pari passo, Harry Armstrong, Head of Future of Nesta, ha delineato proprio nelle soft skills le competenze associate alle professioni del futuro e della stessa linea di pensiero è il World Economic Forum in questo articolo sulle 10 competenze richieste dall’ industria 4.0.
Apertura e continuità nella formazione: i modelli di apprendimento del domani
La capacità di “saper essere” passa attraverso modelli formativi aperti e flessibili che sappiano costruire esperienze di apprendimento significative tanto per i giovani quanto per gli adulti e innovarsi rispetto alle pratiche del passato.
Il vecchio modello di apprendimento su cui si è fondato per anni il sistema educativo e che si basa sulla trasmissione di contenuti, strategie e linee guida non può ritenersi più soddisfacente rispetto alle esigenze del mercato, non essendo in grado di formare persone che sappiamo diventare adulti. Nel vecchio modello diventare adulti significava sapere dei contenuti e riconoscersi nei valori che venivano trasmessi all’interno del “sistema”. Oggi il concetto di identità adulta coincide con la capacità di sapere pensare autonomamente e in modo consapevole, prendere decisioni e avere una gestione del problem solving efficace. Dobbiamo quindi riconoscere la necessità di testare e sviluppare nuovi modelli di apprendimento che si fondino sulla comprensione di come funziona ed evolve la mente nell’era contemporanea per favorire un’ibridazione tra abilità, competenze e conoscenze differenti.
All’interno di questo contesto cognitivo un primo compito risiede nel ripensare la configurazione del sistema educativo. In linea con quanto afferma Damien Lanfrey, Chief Innovation Officer del Ministro per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca (MIUR), parole quali collaborazione, condivisione e co-progettazione devono guidare il ripensamento dei sistemi educativi affinché sia possibile settare una filiera dell’educazione che sperimenta e progetta con il territorio e che quindi si configura come un’interfaccia sempre più aperta nei confronti della società. Perché non possiamo più pensare che i singoli settori di mercato, tra cui quello dell’Istruzione, possano evolvere a compartimenti stagni senza una contaminazione di saperi, conoscenze ed esperienze con l’esterno. L’approccio flessibile, multidisciplinare, creativo e aperto ad una continua evoluzione che caratterizzeranno le professioni del futuro, come suggeriscono alcune discipline tra cui quella del design, deriverà da modelli formativi in grado di favorire un incontro tra discipline, saperi e competenze differenti. Una necessità dunque, quella di identificare nuove forme di interazione tra la filiera dell’educazione e il mondo del lavoro, all’ordine del giorno.
La configurazione del sistema educativo nell’era dell’economia contemporanea. Intervista a Damien Lanfrey
Un secondo compito è relativo alla necessità di sperimentare la pratica del Lifelong learning, una tematica continuamente al centro degli attuali dibattiti sul futuro del lavoro. La vera domanda, come sottolinea Harry Armstrong, risiede nel capire come la società intenda offrire questo servizio e gestirlo a contenimento delle disuguaglianze. Infatti, se da un lato la pratica dell’apprendimento continuo è funzionale a supportare lo sviluppo di competenze, dall’altro può rappresentare una pratica di accelerazione delle disuguaglianze essendo praticabile per lo più da coloro che detengono un capitale cognitivo avanzato e uno skills set ricco, articolato, trasversale e replicabile su più professioni.
Non solo. Chi offre questo servizio, da dove derivano i fondi per la sua implementazione e quale tipo di supporto fornire rimangono interrogativi aperti rispetto ai quali è necessario trovare una risposta nel più breve tempo possibile. Perché come discusso al Jobless Society Forum il Lifelong learning è una pratica necessaria alla valorizzazione e riqualificazione del capitale umano sia sulle competenze digitali a fronte di una carenza di skills adeguate nell’utilizzo della tecnologia, sia su quelle sociali e trasversali, entrambe fondamentali ad affrontare anche la questione spaziale della formazione per favorire una mobilità internazionale degli individui.
Orientamento al futuro e pratica del lifelong learning: alcuni consigli per i decisori politici. Intervista a Harry Armstrong
Come ricorre in molti degli interventi proposti all’interno del volume 10 idee per convivere con il lavoro che cambia il mercato del lavoro sta subendo un processo di profonda trasformazione per cui si rende necessaria un’attitudine all’apprendimento continuo attraverso un’innovazione dei modelli di acquisizione delle conoscenze e competenze.
Abbiamo dunque bisogno di una nuova cultura della formazione che solleciti all’apprendimento costante e che valorizzi le competenze trasversali e sociali dell’individuo per far leva sulla creatività umana e il talento dell’uomo nel dar vita a nuove professioni e a nuove forme di organizzazione del lavoro permettendo di innovare il repertorio di competenze che attualmente conosciamo. Una cultura per lo sviluppo di figure professionali ibride, alfabetizzate rispetto alla cultura del digitale sia in termini di competenze per l’utilizzo degli strumenti tecnologici, sia in relazione a una consapevolezza culturale delle implicazione sociali che derivano dal loro uso.
Rimettere al centro il saper essere dell’uomo nel mercato del lavoro. Questa una delle principali sfide con cui la filiera dell’educazione e della formazione si dovrà confrontare e che potrà essere vinta attraverso la sottoscrizione di un impegno di responsabilità collettiva attraverso cui tutti gli attori della società collaborano all’insegna di un’innovazione dei modelli di apprendimento.