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Stagione Alternativa 2018/2019
Introduzione
Il welfare state è una delle eredità più preziose del XX secolo. Letto alla luce del pensiero di Karl Polanyi, ha rappresentato il contro-movimento che ha permesso una graduale de-commodificazione dei lavoratori e degli individui posti di fronte agli esiti distruttivi dell’azione liberista, imperniata sulla creazione di mercati autoregolamentati. Nel contesto dell’Europa occidentale, i sistemi di welfare hanno costituito uno dei canali di integrazione delle masse popolari nella vita dello Stato, oltre che un vettore di costruzione della legittimazione delle istituzioni politiche e, a partire dal secondo dopoguerra, della stabilità e del consenso di cui hanno goduto le democrazie. La presenza diffusa di welfare states nazionali ha prodotto un peculiare modello di sviluppo, il Modello Sociale Europeo. Questo modello si trova oggi sotto attacco. La necessità di una riforma dei welfare state nazionali è infatti uno dei temi che, a più riprese, ha catalizzato il dibattito pubblico italiano ed europeo.
Con il workshop “3E per ripensare il welfare: efficacia, efficienza ed equità”1, Fondazione Feltrinelli si pone l’ambizioso obiettivo di comprendere i passi che le forze progressiste dovranno intraprendere se intendono mettere in salvo il welfare state ed adeguarlo alle sfide correnti. Il nostro paese condivide uno dei difetti principali dei sistemi di welfare bismarckiani: la bassa capacità redistributiva, sia in termini di reddito (verticale) che tra i diversi gruppi sociali (orizzontale). Tra il 1995 e il 2014, la capacità di ridurre le differenze di reddito nelle fasi pre- e post- tasse e trasferimenti sociali è diminuita di quasi
due punti percentuali in Italia2 (contrariamente a quanto è avvenuto in altri paesi come Spagna, Grecia, Portogallo, Irlanda e Francia). Inoltre, la spesa sociale italiana risulta sostanzialmente sbilanciata sul capitolo pensionistico, mentre la spesa in misure di conciliazione, servizi per la prima infanzia e politiche attive del lavoro rimane ben sotto la media europea. Mentre la riflessione corrente appare imperniata su misure emergenziali per far fronte alla crisi sociale innescata dalla Crisi, riteniamo sia opportuno guardare alle trasformazioni di lungo periodo attraverso una visione complessiva basata sulle funzioni del welfare state. In particolare abbiamo la necessità di garantire misure che:
1. siano efficaci dal punto di vista dell’impatto e che siano nel contempo efficienti nel trovare un equilibrio tra spesa erogata e risultati ottenuti;
2. rispondano a profili di equità, cercando di commisurare l’universalità dei diritti con la necessità di rispondere a una profilazione efficace dei target in una società fluida e profondamente differenziata.
A questo fine, la Fondazione vuole mettere intorno allo stesso tavolo studiosi che guardano alla riforma del welfare state da prospettive diverse, personalità istituzionali coinvolte nei processi di riforma, e organizzazioni della società civile che mediano ed interpretano le istanze sociali emergenti.
Il contesto socio-economico
Le recenti trasformazioni in campo demografico, socio-economico e organizzativo stanno segnando profondamente la società post-fordista. In particolare, il crescente invecchiamento della popolazione unito a bassi tassi di natalità sta creando equilibri demografici molto diversi da quelli che hanno reso possibile l’espansione e la sostenibilità dei sistemi di welfare nei “Trente Glorieuses”. Nel 2000, tra i paesi OCSE, l’indice di dipendenza degli anziani era, in media, 22,53. Nel 2050 l’indice arriverà a 53,2, mettendo a dura prova un sistema di protezione pensato per la società del primo Dopoguerra. In secondo luogo, la trasformazione in senso neoliberista delle economie nazionali, unita alla crescente integrazione dei mercati nel contesto della globalizzazione, crea potenti incentivi per la deregolamentazione delle tutele esistenti a livello domestico, concettualizzando spese e protezioni sociali come costi e freni alla competitività. In terzo luogo, la trasformazione del mercato del lavoro in senso post-industriale ha portato a una progressiva proliferazione di forme contrattuali atipiche, spinte oggi al parossismo con la gig economy, indebolendo così la coalizione sociale che in passato aveva sostenuto la creazione del welfare state. Nel 2016, l’incidenza dell’impiego part-time in forma involontaria era superiore al 60% in Italia, piazzando il nostro paese solo dopo Cipro e la Grecia4. Questi processi hanno una chiara componente territoriale: secondo ISTAT, il tasso di sottoccupazione equivale al 3,8% della forza lavoro nazionale, ma arriva al 9,2% nel Mezzogiorno. Da ultimo, in Italia, le forze socialdemocratiche sono state incapaci di individuare principi e obiettivi alternativi a quelli promossi da
forze politiche ed ideologie avversarie; il dibattito sulla riforma del welfare è stato così condizionato da forze politiche conservatrici, neo-liberiste e, infine, della destra radicale.
Il quadro europeo
A queste dinamiche viene impressa una particolare accelerazione nel quadro delle istituzioni europee. Da una parte il Mercato Unico, già a partire dai primi anni Novanta, rende più difficile controllare l’accesso ai sistemi di welfare da parte di cittadini extra-nazionali, favorendo un pericoloso sciovinismo di welfare da parte di forze e partiti identitari. Nel contempo, nel quadro dell’unificazione della regione economica europea, la facilità di accesso al mercato unico, unita alla presenza di una forza lavoro specializzata, determina il successo economico di alcuni territori e simultaneamente la marginalizzazione di altri, creando nuove esigenze a cui i welfare state nazionali non sono sempre in grado di rispondere adeguatamente. Dall’altra parte, con la firma del Trattato di Maastricht nel 1992, la creazione dell’Unione Economica e Monetaria impone nuovi e più stringenti margini di bilancio agli Stati europei andando così ad incidere in misura crescente sulla spesa sociale. In questo quadro, la Crisi del 2008-11 costringe gli Stati maggiormente colpiti a ricorrere a una strategia di “svalutazione interna”, con misure di austerità che impongono dolorosi tagli ai welfare state nazionali.
Ripensare il welfare: quattro dimensioni analitiche… e quattro dilemmi
La riconfigurazione del welfare sembra oggi passare da quattro dimensioni cruciali. La prima è la dimensione del bisogno, “chi” deve essere assistito nel quadro di un’economia che cambia. Negli ultimi anni, per effetto della progressiva creazione di un’economia digitale e di piattaforme di distribuzione dei servizi, abbiamo assistito all’emergere di nuova marginalizzazione sociale, che consiste in forme talvolta estreme di sotto-impiego. Dinanzi a questa sfida, i sistemi di welfare si trovano impreparati nel fornire forme di assicurazione sociali che possano garantire eguali chance di vita. Allo stesso tempo, la riconfigurazione del mercato del lavoro, anche in virtù dei processi di trasformazione in campo tecnologico, favorisce la progressiva polarizzazione in termini di reddito e di qualità dei posti di lavoro. Di fronte a ciò, ci interroghiamo su “chi” debbano essere i soggetti della protezione sociale – in base ad un’analisi dei bisogni e delle domande sociali inevase – e con quali strumenti e forme di intervento essi debbano essere tutelati contro i vari rischi sociali.
La seconda dimensione cruciale è quella della redistribuzione che deve essere attuata attraverso i sistemi di welfare: ci chiediamo “cosa” debba essere redistribuito, in quale misura, e attraverso quali meccanismi di solidarietà istituzionalizzata. Una prima dimensione riguarda certamente il reddito: le recenti proposte di creare reddito di inclusione e reddito di cittadinanza hanno spinto una larga parte del pubblico a interrogarsi su quali risorse debbano essere messe a disposizione per creare una base di benessere comune a tutti i cittadini, per creare coesione sociale. Questo però non esaurisce le funzioni del welfare. Le trasformazioni sociali degli ultimi 50 anni, con l’ingresso sempre più ampio di categorie precedentemente escluse dal mercato del lavoro e la fine del modello basato sul male breadwinner, hanno comportato un accresciuto bisogno di servizi a sostegno delle famiglie a più redditi. Investimenti nella cura della prima infanzia, nel sistema scolastico e nei sistemi sanitari permettono di creare resilienza sociale e favorire processi di de-familizzazione, cioè la minore dipendenza da reti di sostegno familiare per funzioni di educazione, assistenza, e cura.
La terza dimensione cruciale è quella delle obbligazioni in capo ai beneficiari. “A quali condizioni” è possibile esercitare solidarietà all’interno della società? Da un lato, infatti, nel dibattito degli ultimi trent’anni, il discorso sulla “trappola della dipendenza” insita nelle prestazioni sociali ha contribuito a gettare una luce sinistra sul welfare. A questo rischio, vero o presunto, si è risposto creando obbligazioni in capo ai beneficiari delle prestazioni. Dall’altro, si è argomentato come le dinamiche di “attivazione” dei beneficiari incontrino evidenti limiti di efficacia – non tutti i beneficiari possono infatti soddisfare le obbligazioni volte all’attivazione – e, di conseguenza, equità.
Per finire, va considerata la dimensione procedurale dei soggetti produttori, cioè quali enti e attori debbano farsi carico della produzione dei servizi di welfare. Da un lato, infatti, negli ultimi tre decenni, sulla spinta del “new public management” si è fatta largo l’idea che, accanto a soggetti pubblici, i servizi di welfare possano essere affidati a organizzazioni e attori privati. In questo modo, meccanismi quasi-competitivi potrebbero garantire una maggiore efficienza di costo nella produzione dei servizi. Si tratterebbe, quindi, di comprendere quale ricetta di pubblico e privato e quali strumenti di governance possano bilanciare le esigenze di riduzione dei costi che originano dal contesto, con l’esigenza pubblica di costruire un welfare che possa creare resilienza sociale, indipendenza dal bisogno, e standard di vita degni. Dall’altro lato, tuttavia, i dati empirici mostrano come sistemi di welfare ampiamente privatizzati possano risultare estremamente costosi – tipici sono i casi della sanità negli Stati Uniti, Svizzera e Olanda – oltre a generare spesso problemi di copertura ed equità – con conseguente perdita di efficienza, mentre in alcuni settori (pensioni) si assiste un peculiare ritorno alla gestione pubblica tramite processi di ri-statalizzazione del welfare (Ungheria, Polonia in primis).
Alla luce di queste riflessioni, la prima parte del workshop intende fare chiarezza sulle condizioni strutturali e di contesto che stanno incidendo sui sistemi di welfare nazionali. Nella seconda parte del workshop ci interrogheremo su quali sono le riforme che possano adeguare il welfare state alle sfide presenti, preservandolo.
Domande:
· Quali sono i bisogni emergenti e quali i gruppi sociali che richiedono interventi puntuali di politica sociale?
· Quali politiche possono essere messe in campo – nei diversi settori – per disegnare sistemi di welfare capaci di combinare efficienza nella spesa con efficacia ed equità nella protezione sociale?
· Alla luce dei vincoli di bilancio, della bassa crescita economica e della trasformazione produttiva/del mercato del lavoro, quale forme di finanziamento del welfare possono meglio garantire il perseguimento delle 3E nel settore del welfare state?
· All’interno dell’approccio del politiche attive del mercato del lavoro, possono esistere misure che risultino efficaci pur mantenendo livelli bassi di condizionalità?
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