Discutere da storica della Risoluzione del Parlamento europeo sulla memoria comune è al tempo stesso illusorio e inevitabile. E’illusorio perché quella risoluzione parla del presente, con scopi politici contingenti. Tuttavia esordisco, inevitabilmente, con considerazioni storiche.
Cito quindi innanzitutto una ricerca pubblicata nel 2000 che rispondeva al clamoroso Livre noir du communisme di 3 anni prima. E’ Le siècle des communismes (éditions de l’Atelier) a cura di un collettivo di ricercatori, fra i quali M. Dreyfus e B. Groppo, la cui chiave interpretativa sta proprio nel plurale del titolo. Nello studio della pluralità delle esperienze, al posto del singolare che si presta tanto alle demonizzazioni come alle rivendicazioni identitarie, ciò che emergeva da quelle ricerche e che si potrebbe opporre alla semplificazione dei comunismi in termini di “totalitarismo” è innanzitutto la diversità delle condizioni storiche con le quali i partiti comunisti accedono – o non accedono – al potere. Nel secondo Dopoguerra l’assegnazione di popoli e paesi ai diversi regimi più che un processo autonomo di scelta ricorda il principio del Cuius regio eius religio che già nel 1555 violava e reprimeva movimenti sociali! Il partito comunista rumeno – il cui consenso era assolutamente irrilevante – al potere, la conventio ad excludendum dal governo dei partiti comunisti in Italia e Francia credo rappresentino due poli estremi di questa contraddizione.
Le diverse eredità raccolte da quei partiti al momento della presa del potere ne hanno condizionato l’esercizio. Sono da sottolineare anche le differenze di funzionamento: organismi di potere, oppure partiti con vasta base di massa o gruppuscoli ridotti a dinamiche settarie non hanno né le stesse basi sociali né lo stesso funzionamento interno. Inoltre sotto l’etichetta “comunismo” traiettorie di vita e umane diversissime possono essere ridotte a unità solo con una vera e propria violenza ideologica.
Ciò non significa che gli storici debbano rifiutare un bilancio delle sofferenze sociali prodotte dai regimi un tempo definiti di “socialismo reale”: repressione delle libertà personali ma anche dei conflitti sociali. La definizione di “stato operaio” ha reso indicibili i costi umani e sociali di quei processi e la repressione della soggettività dal basso ha certamente contribuito alla crisi di quei regimi.
Manifestazione del Bund, movimento dei lavoratori ebrei di Russia e Polonia
La Risoluzione espelle i movimenti comunisti dalla storia dei movimenti operai e socialisti e sacrifica così storie complesse e contraddittorie di cui abbiamo sempre più approfondite conoscenze e si azzarda anche a imporre interpretazioni univoche davvero insostenibili: il caso clamoroso è l’attribuzione al patto Molotov-Ribbentrop della responsabilità diretta della II Guerra mondiale, contestabile sulla base di una vasta storiografia. Dal punto di vista dei militanti dei movimenti comunisti occidentali impegnati in prima fila nelle mobilitazioni antifasciste e antinaziste soprattutto dopo il ’33, d’altra parte, esso rappresentò una tragica lacerazione per i partiti e il loro radicamento e mise in luce il contrasto fra la loro autonomia sociale e le esigenze di uno stato-guida in procinto di diventare un impero.
Anche queste osservazioni ci rimandano ai “comunismi al plurale”.
Ma se rifiutiamo la forzatura di espellere i movimenti comunisti dalla lunga storia sociale europea, per ridurli a fatto criminale, addirittura comparabile al nazismo, dobbiamo anche ricordare che i movimenti di emancipazione collettiva dei paesi europei, sia orientali sia occidentali, non si esauriscono nei partiti comunisti, o nel bolscevismo; culture e organizzazioni diverse, dai menscevichi al Bund ai movimenti sindacali fanno parte di quelle storie. Spesso le rivolte operaie di quei paesi si collegavano con ciò che restava di quelle tradizioni. La posizione di Giuseppe Di Vittorio nel ’56 – che chiedeva ascolto e rispetto per quelle rivolte e i bisogni che esprimevamo – mi sembra tuttora esemplare dell’unità dei movimenti sociali nonostante le differenze di regimi. Da decenni del resto le ricerche hanno recuperato la vitalità e creatività dei movimenti socialisti e delle loro organizzazioni internazionali che hanno sempre rappresentato, con poche eccezioni, soprattutto l’Italia, la sezione maggioritaria dei movimenti sociali e dei lavoratori.
Giuseppe Di Vittorio, politico, sindacalista italiano
Soprattutto i limiti delle leggi memoriali emergono in questo documento che sembra rispondere ad esigenze contingenti poste dalla coabitazione di stati con storie, esperienze e governi diversi e dal contenzioso con l’attuale Federazione Russa. Il rischio che ne deriva è anche, a mio parere, quello di confinare sotto l’etichetta di “totalitarismo” tutte le esperienze politiche critiche di un presente tuttora dominato dalle esigenze delle economie liberali che proprio la lunga tradizione europea di conflitti e compromessi sociali dovrebbe insegnare a governare e piegare agli interessi da esse non privilegiati. Le istituzioni tutte dovrebbero dunque evitare proprio queste elaborazioni di verità e orizzonti “di Stato”.
Ma a una prima lettura della Risoluzione mi è parso che una risposta preventiva ad essa l’abbia data nel 2002 in una lontana intervista Zygmunt Bauman la cui biografia riassume le speranze e le tragedie del secolo. Una frase che assume valore anche per la vita di chi l’ha espressa: « Ora è indispensabile il socialismo: [non un regime specifico ma] un coltello affilato premuto contro le eclatanti ingiustizie della società, una voce della coscienza finalizzata a indebolire la presunzione e l’autoadorazione dei dominanti. […] Come la fenice, rinasce dal mucchio di ceneri lasciate dai sogni bruciati e dalle speranze carbonizzate degli uomini. E sempre risorgerà».