Quando parliamo di progetto europeo, parliamo non solo di grandi politiche, ma anche di sforzo, tensione e impegno volti a creare un linguaggio comune.

Quando nasce «Europe» nel febbraio 1923 (la rivista durerà fino all’agosto 1939), l’obiettivo preliminare è superare la grande divisione segnata dalla Prima guerra mondiale: quella tra Francia e Germania

L’Europa – un punto essenziale che poi rimarrà per tutto il tempo successivo fino a noi oggi – non si fa se non superando il grande fossato segnato dal Reno. Riuscire a “fare Europa” significava trovare una mediazione ma anche allargare ciò che chiamiamo Europa, capire che uno spazio democratico è prima di tutto diritto di parola delle minoranze, cittadinanza politica degli sconfitti, spazio per i dissidenti perseguitati.

In breve, come diceva Hannah Arendt progettare libertà non è fermarsi all’atto di liberazione.

Uscire dall’oppressione senza nostalgie e respingendo le sirene del nazionalismo comunitarista significa progettare un diverso ordine delle cose, pensare un diverso linguaggio.

Presto il tema diventa promuove autori d’oltreoceano perché se l’Europa deve riprendere a pensare ha bisogno di «andare a prendere aria al di là dell’Atlantico» (Henry David Thoreau è pubblicato nei primi numeri). Poi bisogna dare spazio:

1) ai dissidenti e ai perseguitati in Urss (a cominciare da Trotsky);

2) a quegli autori che la destra eleggerà a propri simboli, ma abbiano davvero voglia di confrontarsi e non di propagandare totalitarismo (Pierre Drieu la Rochelle, per esempio);

3) a tutti i fuoriusciti democratici in fuga dai propri paesi ormai in mano a regimi razzisti, autoritari, totalitari, a cominciare dagli intellettuali italiani (Gaetano Salvemini), tedeschi (Thomas Mann) austriaci (Joseph Roth, Stefan Zweig).

Sono gli anni in cui Parigi (come Londra dopo il 1848) è la città mondiale dei democratici. Ruolo che Parigi torna a svolgere tra anni ’50 e ’80 come capitale del dissenso, quando le voci soffocate dell’Europa dell’Est, non solo i politici, ma i letterati (Milan Kundera, Witold Gombrowicz), o gli storici (Bronislaw Geremek, Krysztof Pomian, Witold Kula), la eleggono a luogo dove parlare collaborando in riviste che diventano il luogo in cui mettere a terra i loro pensieri perché «si facciano parola» nel mondo.

Dunque, «Europe» è il prototipo di una rivista che segna il nostro tempo.

Il principio è semplice: «ascoltare, leggere, riflettere, scambiarsi cose insieme» conviene. Non è venir meno alla propria identità originaria, ma contribuire a costruire un profilo di cittadinanza universale per domani senza dimenticare chi si è. Lo spiega bene Heinrich Mann in uno dei primi numeri della rivista.

Una piattaforma di confronto che non corrisponde a un progetto politico definito, ma che è un modo per creare spazi di dialogo. Perché quando i muri si innalzano occorre trovare i luoghi di incontro per testimoniare di andare «in direzione ostinata e contraria».


Puoi trovare qui i numeri della rivista «Europe» dal Patrimonio della Fondazione Feltrinelli.

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