La memoria di un evento drammatico, come un’aggressione o un grave incidente, può diventare peggiore dell’evento stesso, perché lo perpetua e lo carica di risonanze emotive sempre più laceranti, proprio quando vorremmo lasciarcelo alle spalle. Eppure, c’è chi frammenti di esistenza, quali che siano, li vorrebbe fermare, infilzare con uno spillo quasi fossero farfalle o congelare come reperti preziosi, per poterli rivedere e condividere. In fondo, sono la nostra vita. Ma quelle istantanee o quei fili di volti, fatti, sensazioni spariscono inesorabilmente, precipitati in un buco nero dal quale nessuna forza può più estrarli. Sono distrutti? Sigillati? Irrecuperabili per qualche bizzarro e tragico scherzo della natura? Se lo chiedono tristemente, finché ci riescono, i malati di Alzheimer.
Dimenticare qualcosa può essere uno straordinario lenimento per tanti dolori e, tuttavia, lo stemperarsi dei ricordi, più o meno rapido, legato all’invecchiamento oppure a degenerazioni cerebrali, è sentito come una ferita personale e sociale tanto più difficile da sopportare quanto più erode la nostra identità e le nostre relazioni con le altre persone. Ricordare o dimenticare, allora? Un quesito mal posto, è evidente. Da secoli gli esseri umani – e tutti i giorni ciascuno di noi – sembrano in lotta contro l’oblio: ricordare tutto quello che dovremmo è sempre apparso, e probabilmente è, un’impresa superiore alle nostre capacità. La dimenticanza sopraggiunge spontanea e non voluta, spesso in realtà benefica, per noi e le nostre relazioni. Quello che possiamo affermare è che ogni situazione, personale o collettiva, legata alla memoria interna o esterna, chiede risposte differenti.
Trattenere frammenti del passato è stato oggetto di tecniche personali fino agli albori dell’età moderna, poi campo del crescente strumentario atto a depositare i ricordi su supporti più o meno facilmente consultabili e trasportabili: dalla scrittura ai registratori vocali, dalla fotografia agli smartphone multimediali. “Dimenticare” ciò che è accaduto sta forse diventando, invece, più difficile e costoso a livello pubblico, mentre per i singoli individui l’arduo equilibrio tra nuovi dati in entrata ed eliminazione di vecchie tracce, inutili o dannose, è da millenni legato alle nostre fragili e preziose capacità umane, impasto inestricabile di biologia e di apprendimento riflessivo. Soltanto pochi anni fa (2004) un film poetico e profondo come Eternal Sunshine of the Spotless Mind (in italiano, Se mi lasci ti cancello) ha riattualizzato nell’immaginario collettivo la possibilità, grazie a una tecnica fantascientifica, di eradicare dai propri pensieri l’ex innamorata o l’ex innamorato insieme alle vicende vissute insieme.
Ciò è avvenuto proprio nello stesso periodo in cui nei laboratori si sono cominciate a sperimentare sui roditori molecole capaci di attenuare o fare scomparire i ricordi di eventi che scatenano paura. Le stesse molecole contenute in farmaci che, quando tempestivamente somministrati, si sono dimostrati efficaci nello stemperare le memorie negative anche in soggetti umani. Tanto che si è pensato di prescriverne uno in particolare, il propranololo, alle vittime di incidenti stradali perché non sviluppino sindromi da stress post-traumatico, grazie a un intervento sulle componenti emozionali delle memorie associative. Speranze e timori debbono quindi essere commisurati alla reale situazione dei laboratori, al di là degli annunci, a volte sensazionalistici. Una frontiera, tuttavia, è stata aperta. E si tratta di una frontiera importante.
Lo testimonia il fitto dibattito filosofico, bioetico e anche “politico”, che i primi risultati sperimentali raggiunti hanno suscitato. Manipolare i ricordi come si fa per il montaggio di un film apre scenari tanto innovativi quanto potenzialmente disturbanti. Se il primo, e lodevole, obiettivo per cui si lavora è quello di restituire un’esistenza più serena ai tanti che sperimentano, per pura sorte avversa, dolori e sofferenze, altre potenziali applicazioni appaiono più controverse. Non è la memoria la condizione della nostra identità personale? Rimuovere a piacimento quello che non sopportiamo più del nostro passato – sempre ammesso che diventi possibile – non finirà con il renderci individui più felici, ma anche meno saggi? Con un ridotto fardello sulle spalle, ma con ridotta coscienza morale? Vi è, poi, un dovere del ricordo per testimoni di eventi particolari, delitti o genocidi? Quali sono, se esistono, i limiti all’autonomia di scelta personale e di ricerca scientifica? Lo Stato deve avere qualche ruolo di regolazione?
Detto questo, per l’oblio procurato a comando, nei laboratori, con i modelli animali sui quali è possibile sperimentare ciò che non è lecito fare sugli esseri umani, la ricerca fa passi da gigante anche su altri versanti. Recentemente, il team del premio Nobel Susumo Tonegawa è riuscito a invertire nei topi la valenza emotiva di un ricordo, ovvero a farlo diventare positivo da negativo e viceversa. Ciò che è stata capace di fare un’équipe dell’Università di Toronto guidata dalla italiana neuroscienziata Gisella Vetere (ora attiva all’Espci di Parigi) si spinge invece alle soglie della fantascienza. Quella ad esempio del film Total Recall, ispirato da un racconto di Philip Dick, in cui Arnold Schwarzenegger ricorre ai servizi di una società capace di impiantare false memorie di viaggi mai compiuti. In questo caso le memorie sono più semplici, ma ugualmente straordinario è il risultato. Nelle cavie, infatti, si è riusciti a creare un’associazione negativa con l’acetofenone (una resina), in modo che l’animale tendesse a evitare un ambiente saturo di quell’odore anche se non l’aveva mai incontrato in precedenza. Ovvero, un ricordo è stato creato direttamente nel cervello, senza l’esperienza della realtà esterna.
Lo scopo di questa e altre ricerche non è la manipolazione, ma solo la conoscenza dei meccanismi biologici. Tuttavia, in un’era in cui la possibilità di ibridare l’umano con l’artificiale si fa sempre più concreta ed estesa, la riflessione sulla natura e l’etica della memoria diventa più pressante e necessaria.