A trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, le conseguenze del crollo del socialismo reale nell’Est europeo meritano qualche riflessione. Sono convinta che il nazional-populismo che attanaglia e stringe oggi in una morsa alcuni paesi dell’Europa centro-orientale (PECO) abbia radici lontane, che non sia solo il frutto di decenni di “sovranità limitata”, ovvero di sudditanza da Mosca, quando l’odio verso l’occupante aveva generato pulsioni represse di nazionalismo bellicoso. È piuttosto la storia di quei paesi sedimentata nei secoli a testimoniare l’esistenza di un “passato che non passa”.
E, dunque, se l’Europa occidentale si emancipa dal nazionalismo alla fine delle due guerre mondiali, per intraprendere poi un percorso di ricostruzione sociale e democratica, per i PECO l’occasione di svincolarsi da un regime oppressivo comunista e di avviarsi verso una nuova stagione di libertà e democrazia si presenta con le rivoluzioni del 1989.
La caduta del muro di Berlino, che apre la strada alla riunificazione tedesca, diventa il simbolo della fine della guerra fredda. Per i PECO è il momento del riscatto, della riconquista della sovranità nazionale, ma è soprattutto l’avvio di una transizione ricca di promesse di prosperità, prima ancora che di libertà e democrazia. Nel 1991 si costituisce il Gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia – divisa poi in Repubblica Ceca e Slovacchia). I quattro paesi firmano un trattato di libero scambio per facilitare la transizione verso il libero mercato e verso livelli di benessere vicini a quelli occidentali. Tuttavia, le politiche economiche messe in atto nei PECO seguono le direttive del Washington consensus formulate nel 1989 e volute dal FMI e Banca mondiale, che prevedono tagli al welfare e una sostanziale deregulation per avviare liberalizzazioni commerciali e privatizzazioni delle aziende statali. Una misura da “lacrime e sangue”, che manderà in frantumi sogni e speranze, privando dei più elementari diritti economici e sociali la gran parte dei cittadini dei PECO. Nello stesso tempo, le imprese europee occidentali si espandono nei nuovi mercati dell’Europa centro-orientale tramite gli IDE (Investimenti Esteri Diretti), realizzando grandi operazioni strategiche e finanziarie, ma creando dipendenza dell’industria e delle finanze dei PECO dai capitali stranieri occidentali.
I PECO si percepiscono sempre più come appendici economiche dell’Ovest e faticano ad avvicinarsi culturalmente alla Vecchia Europa secolarizzata. D’altro canto, un decennio di terapie-shock neoliberiste non fa che favorire la marea montante dei nazionalismi già emersi dalle macerie del comunismo, e con essi il ripiegarsi su valori e comportamenti arcaici come forma di resistenza. Proprio nel 2001 nasce il partito PiS dei gemelli Kaczyński (Polonia), che userà il nazionalismo come architrave ideologica e leva di legittimazione popolare per vincere le elezioni. Il PiS eredita l’anima confessionale e patriottica conservatrice del movimento sindacale operaio Solidarność. Mette radici nella Polonia profonda (contadina, retrograda e diffidente), accusando i rappresentanti della costola più liberale e democratica del movimento (in testa il suo leader indiscusso – Lech Wałęsa) di essere stati indulgenti con i quadri del vecchio regime comunista, che poterono indisturbati riciclarsi in diversi settori chiave del nuovo Stato, arricchendosi nel periodo delle privatizzazioni selvagge, incubatore di quelle insicurezze, domande di protezione e promesse tradite che saranno poi intercettate dal PiS.
Movimento sindacale operaio Solidarność
Il partito Fidesz del giovane Orbán (Ungheria), nato alla fine degli anni Ottanta, porta il paese nella NATO e prepara l’ingresso nell’UE, ma pur essendo lontano dall’orientamento illiberale assunto in seguito, mostrerà già intorno al 2002 qualche segnale di revirement con gli emendamenti al Codice del lavoro, e con l’adozione di una retorica nazionalista che porterà ad additare come traditori della patria i giornalisti ungheresi, che rilasciano ai loro colleghi stranieri interviste critiche sull’operato del governo. In questi due paesi, si fa strada un nazional-populismo, che poggia su una leadership forte e carismatica. Un fatto tutt’altro che singolare. In Russia, nel 2000, spunta Putin, dopo che una nuova e potente crisi finanziaria e valutaria (1998), conseguenza dei piani di aggiustamento strutturale del FMI e Banca mondiale, mette di nuovo in ginocchio il paese con più di 30 milioni di russi che finiscono sotto la soglia assoluta di povertà. Artefice della fuoriuscita dal disastro economico degli anni Novanta, sarà lo stesso Putin. Tuttavia, fa da contraltare a ciò l’affermazione nel paese di una democratura. Un esito quasi scontato in quelle realtà dove i valori d’inclusione e democrazia – che rappresentano un antidoto alle patologie da cui sono scaturite le guerre mondiali frutto dell’odio razziale, dello sciovinismo e del nazionalismo – non hanno trovato radicamento.
Alla fine degli anni Novanta, i PECO entrano nella NATO confidando nella sicurezza militare contro i piani espansionistici della Russia che avrebbero potuto mettere di nuovo in pericolo le sovranità riconquistate dopo tanta sofferenza, mentre la loro adesione all’UE nel 2004 riapre la speranza di un “miracolo economico”. Dall’ingresso nella comunità europea, questi paesi, grazie anche ai generosi fondi comunitari, migliorano la loro economia con tassi di crescita del PIL costanti. Tuttavia, la crisi finanziaria del 2008 colpisce duramente alcuni di loro – in particolare gli stati Baltici e l’Ungheria. In quest’ultimo, il sistema bancario est-europeo finito sotto l’ombrello delle banche occidentali fa sì che circa un milione di famiglie magiare, che hanno contratto mutui per la casa a tassi variabili con valuta straniera (franchi svizzeri o euro), non saranno più in grado di rimborsare i mutui, poiché, con la crisi, la moneta elvetica sale alle stelle, il fiorino crolla, con una conseguente impennata dei tassi di cambio. Ed è proprio sulla rovina economica delle famiglie ungheresi che Orbán riconquista nel 2010 il potere, dopo otto anni d’opposizione. Orbán paragonerà la crisi finanziaria del 2008, la cui responsabilità fa ricadere sull’Occidente, ai tre grandi eventi storici del Novecento: le due guerre mondiali e la caduta del comunismo. Da allora, Orbán governa il paese con un cambio di rotta politica dichiaratamente euroscettica, populista e nazionalista. La Polonia resisterà alla diffusa crisi finanziaria. Eppure, la svolta autoritaria non tarda ad arrivare. Con le elezioni del 2015, il PiS conquista il potere, accusando il partito di governo Piattaforma Civica di “aver abbandonato i figli della Polonia”, non avendo affiancato l’alto tasso di crescita del paese con un’equa distribuzione della ricchezza, precarizzando il lavoro, mantenendo bassi i salari dei lavoratori e investendo una cifra esigua per la protezione sociale.
In Ungheria e Polonia si ripropone, se pure in un contesto diverso, quella faglia tra “centro e periferia”, emersa drammaticamente negli anni Novanta, quando alle ricche élite (cittadine) si era contrapposta una massa di poveri (gli sconfitti della transizione) sempre più aggrappati agli unici baluardi rimasti sicuri: la fede e la famiglia tradizionale. Ungheria e Polonia guadagnano nel tempo il consenso popolare, grazie a un forte radicamento nelle zone rurali, con un programma basato su misure di social welfare e ricette identitarie nazionaliste. Contemporaneamente, mettono in atto una progressiva erosione dei diritti fondamentali di uno stato democratico. L’acuirsi della crisi migratoria radicalizza la deriva ungherese e polacca con l’intolleranza nell’accettare il piano europeo di ricollocamento dei migranti percepito come un’intromissione nelle questioni politiche interne. Le elezioni politiche ungheresi del 2018 e quelle polacche del 2019 confermano il successo di Fidesz e PiS, grazie al voto delle province rurali. Oggi i due paesi, che pure avevano fatto da apripista per l’uscita dei PECO dal sistema imposto dall’URSS, sono i più impegnati nell’accusare la nuova “Unione Sovietica Europea” di promuovere il multiculturalismo, l’immigrazione e la gender ideology. Fatta eccezione per la Slovacchia, il gruppo di Visegrád conferma un sovranismo incentrato su valori premoderni.
Manifesto sovietico anni ’30 – Dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Nasce spontanea la domanda: perché i PECO sembrano incapaci di allontanarsi da un passato che li vincola a una visione retriva del mondo, mettendo in evidenza la mancata interiorizzazione dei valori e dei sistemi democratici su cui poggia l’UE? E qui, per rispondere, torno all’inizio delle mie riflessioni. Ritengo che i germi del nazionalismo odierno dei PECO si siano sviluppati alla fine dell’Ottocento come “forte reazione al processo secolare di soffocamento dell’identità nazionale”. In fin dei conti, gli stati nazionali nell’Europa centro-orientale nascono solo alla fine del primo dopoguerra. In seguito, negli anni tra le due guerre, questi stati, partoriti dal crollo dei vecchi Imperi, si misurano con una modernizzazione ritardata e con le tensioni sociali scaturite dalla Grande Depressione. Incentrati su partiti agrario-conservatori, essi segnano un punto di svolta reazionaria e parafascista imbevuta di nazionalismo etnico, clericalismo e antisemitismo. Fa eccezione la Cecoslovacchia, l’unico paese dell’area a conservare un sistema democratico. Tutto questo dipinge il quadro della situazione nell’Europa centro-orientale nella prima metà del XX secolo. Poi arriva la furia della Germania nazista e con essa l’ecatombe della Seconda guerra mondiale, che in alcuni paesi (Polonia, in particolare) contribuisce a cambiamenti drammatici nella composizione etnica e nella modifica delle strutture sociali. Infine, dopo il 1945, gli stati dell’Europa centro-orientale entrano nell’orbita sovietica e solo verso la fine degli anni Ottanta riconquisteranno la loro piena sovranità. Questo sfondo storico non è stato del tutto spazzato via con la svolta dell’Ottantanove. Lo spirito anti-migranti in Polonia si accompagna a un montante sentimento anti-tedesco (la politica sull’immigrazione della cancelliera Merkel è stata, a suo tempo, considerata catastrofica) che ha origini molto lontane. E così il livore antirusso che pervade alcuni di questi Paesi. Nel Baltico, subito dopo lo stacco dall’URSS, i diritti di cittadinanza delle minoranze slave sono stati cancellati con un colpo di spugna. I PECO hanno riconquistato la sovranità, ma non hanno sviluppato appieno gli anticorpi necessari per contrastare forme d’intolleranza. Nelle loro periferie, parole come UE, stato di diritto, libertà di stampa, sono concetti astrusi. Lo splendido “Autunno delle nazioni” è stato essenzialmente il via libera per autodeterminarsi e per arricchirsi. Ma nei PECO la democrazia è ancora così poco consolidata da essere costantemente in pericolo di scivolare nel suo opposto.