Articolo del Laboratorio Dire la verità – riflessione pubblica su libertà di parola, libertà e potere 


L’esercizio della verità, a qualunque livello, necessita di un ambiente in cui la consapevolezza storica abbia un ruolo predominante. La “verità” è infatti una relazione sociale la cui evidenza, più o meno apparente, è in quanto tale contendibile e dunque richiede un continuo impegno della comunità per garantire la manutenzione dei nessi e degli snodi fattuali che ci permettono di ripercorrere/ripensare pezzi di passato ritenuti socialmente rilevanti, a seconda delle epoche e delle pubbliche emergenze del momento.

Per questo il processo di marginalizzazione politica della storia, che da molti anni si può evincere anche dalla scarsa rilevanza attribuita dal Ministero della Pubblica Istruzione all’insegnamento della disciplina (riduzione delle ore assegnate negli istituti professionali, eliminazione della traccia di storia all’esame di Stato, mancata separazione da filosofia nei licei, ecc), non può e non deve essere inteso come uno dei tanti adeguamenti dei programmi scolastici, non di rado definiti soprattutto sulla base di una ristretta logica “pedagogista”. La storia, in quanto sforzo di comprensione del passato, segnala in sé un’esigenza di verità che probabilmente è alla base del grande interesse che suscita nella cittadinanza come tra l’altro dimostra la crescente attenzione verso programmi televisivi, festival, iniziative editoriali legate alla storia, dall’antica alla contemporanea.

E’ probabile che lo specifico disinteresse della classe politica sia frutto di una superficialità di giudizio che considera la storia come una serie di racconti più o meno commendevoli del passato, una raccolta di antiquariato di cui si può, anzi si deve, fare a meno nel momento in cui urge trovare più spazio alle discipline del presente, alla pratica “utile” (lingue, informatica, laboratori ecc). Un tempo regina incontrastata nei processi di formazione della classe dirigente e in quelli dell’elaborazione intellettuale di gran parte delle scienze sociali, la storia appare oggi una sorta di ancella secondaria in quanto non sembrerebbe fornire “competenze”. In realtà la storia a scuola dovrebbe essere una sorta di competenza generale, una pre-materia che, coltivando la complessità degli eventi umani, facilita la consapevolezza del contesto politico, sociale, economico in cui viviamo.

Individuando uno dei fattori della crisi del sistema politico italiano nella mancanza di una classe dirigente, Piero Gobetti invocava una nuova «generazione di storici», proprio per evitare che la politica fosse ridotta a cronaca, cioè amministrazione di un presente privo di futuro. D’altronde, sino agli ’70 e ’80 del XX secolo gli intellettuali e in particolare gli scienziati sociali erano debitori verso la conoscenza storica senza la quale le loro analisi sarebbero apparse prive di efficacia. Si pensi a Marx, Mosca, Weber, Keynes, Schumpeter, solo per fare pochissimi nomi. Ma anche guardando alla classe politica, per tutto il XIX e gran parte del XX secolo non sarebbe stato possibile esercitare una vera leadership senza il possesso di una solida cultura storica: da Gladstone a Cavour, da Thiers a Bismarck, da De Gasperi a Togliatti, da De Gaulle a Brandt e si potrebbe continuare a lungo. Una verità talmente radicata nel sentire comune che il maggior pedagogista italiano dell’800, Aristide Gabelli, ha potuto affermare che “quando gli uomini di Stato non sanno la storia è come se tutto un popolo fosse senza passato”.

La crisi della ragione storica intesa come razionalità “positivista” seguita alla fine della guerra fredda ha messo in moto una reazione che ha condotto le scienze sociali a prendere le distanze dalla storia e dalla sua complessità, a specializzarsi – ritagliandosi settori sempre più ristretti di competenze tecniche – e dunque a isolarsi, scegliendo la strada della de-contestualizzazione dei problemi del presente, preludio a quel particolare tipo di falsificazione che si produce quando fatti reali vengono accentuati ed esasperati o, appunto, decontestualizzati. E’ questo l’ambito entro cui si è affermato un sistema di riflessione sulla crisi avviatasi nel XXI secolo tutto incentrato sulla semplificazione delle proposte di soluzione dei problemi sociali. Con questo non si vuole intendere che la complessità sia scomparsa dagli orizzonti della scienza e della politica. Semplicemente, la complessità veicolata dalla storia, così radicata nei processi di formazione della società, è stata sostituita, a iniziare dalla seconda metà del ‘900, da una nuova complessità, teorizzata questa volta, ad esempio, dalla matematica, che pensa i diversi elementi della società come variabili astratte, ma connesse tra di loro.

Tuttavia non si può negare che tale tendenza alla marginalizzazione della storia trovi la propria ragione, più o meno inconscia, nel difficile rapporto della nostra società con la verità, che per l’indagine storica rimane per forza di cose un orizzonte, un’aspirazione, ineliminabile. Nel concreto – al di là della nota espressione di Leopold Ranke per il quale lo storico deve proporsi unicamente la descrizione delle cose “come sono avvenute” – la storia oggi, anche fuori dalle aule scolastiche, dovrebbe essere considerata soprattutto un percorso critico teso all’accertamento dei fatti attraverso fonti verificabili. Si tratta come è evidente di un procedimento e dunque di una cultura che configgono apertamente con le necessità dell’attuale presentificazione del sapere, incentrata sulla rete e sulla velocità/brevità dell’informazione. Ma se descrivere gli eventi, verificandone la veridicità, rimane un compito ineludibile per gli storici, va anche detto che non possono e non debbono limitarsi a quello, ma devono andare oltre, cercando di comprenderli che è obiettivo ben diverso da giudicarli. Su questo Marc Bloch ha scritto parole limpide quanto definitive che rinviano direttamente al tema del rapporto tra storia e verità: “Non diciamo che il buon storico è senza passioni; ha per lo meno quella di comprendere. Parola, non nascondiamocelo, gravida di difficoltà, ma anche di speranze. Soprattutto carica di amicizia. Persino nell’azione noi giudichiamo troppo. E’ così comodo gridare: ‘Alla forca!’ Non comprendiamo mai abbastanza. Colui che differisce da noi – straniero, avversario politico – passa quasi necessariamente, per un malvagio. Anche per condurre le lotte che si presentano come inevitabili, occorrerebbe un po’ più di intelligenza delle anime; e tanto più per evitarle se si è ancora in tempo. La storia, pur che rinunci alle sue false arie di arcangelo, deve aiutarci a guarire da questo difetto. E’ una vasta esperienza delle varietà umane , un lungo incontro degli uomini. La vita, al pari della scienza, ha tutto da guadagnare da che questo incontro sia fraterno”.

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