Non è solo un luogo comune affermare che l’Italia sa scuotersi e ritrovarsi nelle emergenze. Non sempre le risposte date sono appropriate, ma comunque ci sono. In una situazione di grande emergenza come quella attuale può essere istruttivo leggere l’esperienza storica delle politiche pubbliche in situazioni emergenziali, limitando l’osservazione a quelle riguardanti l’industria e il Mezzogiorno.
A seguito della crisi del 1929 gli squilibri finanziari di molte grandi imprese si scaricarono sulle banche. Beneduce e Mussolini, per semplificare, diedero vita all’IRI che intervenne salvando le maggiori banche e il sistema produttivo. L’IRI non era lo stato, ma un istituto di diritto privato sostenuto dallo stato e governato a fini pubblici da un gruppo dirigente di grande spessore: fu un’innovazione istituzionale lungimirante. Venne la seconda guerra e alla sua conclusione si discusse sul destino dell’IRI, stante l’emergenza della Ricostruzione. De Gasperi lo salvò, stante la latitanza del capitale privato italiano, e appoggiò anche la nascita dell’ENI evitando l’ingresso ingombrante delle multinazionali americane. Le nuove Partecipazioni Statali, governate da manager dotati di un’autorevolezza che attribuiva loro un’ampia autonomia dalla politica, contribuirono in modo determinante alla ricostruzione e al Miracolo economico, dotando l’Italia di moderne industrie di base e di grandi infrastrutture. Questa politica industriale vide lo Stato intervenire nella posizione di “principale” che delega a un “agente” – i dirigenti IRI e ENI – di agire nell’ interesse dello Stato, nelle certezza che essi evitassero comportamenti di azzardo morale. Sempre De Gasperi, seguendo le proposte elaborate da SVIMEZ e in particolare da P.Saraceno, diede vita a un’Autorità separata dalla pubblica amministrazione, la Cassa per il Mezzogiorno, con l’obiettivo di creare le precondizioni per lo sviluppo del Mezzogiorno. Questi interventi, gestiti da una “mano visibile”, si accompagnarono a quello della progressiva liberalizzazione degli gli scambi internazionali, di cui il Trattato di Roma fu al contempo punto di arrivo e di partenza. Fu una scelta di grande successo, frutto di visione, pragmatismo e un buon uso delle risorse manageriali disponibili.
Dalla fine degli anni Cinquanta con il Centro-sinistra si affermò un nuovo regime di politica economica che attribuiva più spazio allo Stato e alla politica. Vi fu la nazionalizzazione del settore elettrico, la Programmazione economica, il sistema di incentivazione creditizia degli investimenti, la contrattazione programmata, gli interventi politici in alcuni settori come la chimica e la siderurgia, i grandi investimenti nel Mezzogiorno (Cattedrali nel deserto). Negli anni Settanta arrivò una nuova e diversa crisi, frutto di shock dal lato dei costi e di una grande e nuova incertezza internazionale. Dominò allora la logica dell’intervento diretto dello Stato – blocco dei prezzi, legge di ristrutturazione industriale, legge di risanamento finanziario, etc. – e dell’uso delle Partecipazioni statali per salvare imprese pubbliche e private a fini occupazionali. La questione meridionale cominciò a passare in second’ordine. Furono anni che videro una sequenza di interventi complessivamente scoordinati, figli della confusione che dominava nella classe politica, e ispirati da pulsioni politiche i cui elevatissimi costi si scaricano sul debito pubblico, e i cui esiti furono scarsi. La grande impresa se la cavò soprattutto grazie all’inflazione, al decentramento produttivo, alla cassa integrazione e ai prepensionamenti, oltre che ai salvataggi.
Negli anni Ottanta, in un regime di duopolio partitico arrogante e miope, fece capolino una nuova politica industriale di sostegno alla ricerca tecnologica e all’innovazione: modesti i risultati, ancora una volta per l’inadeguatezza del legislatore e della pubblica amministrazione, ma anche per la cattura degli aiuti attuata dalle grandi imprese. La politica meridionalistica si trasformò in politica redistributiva del reddito. Vi fu nel 1980 un’emergenza significativa, quella del terremoto in Irpinia, che produsse due esiti diversamente interessanti: da un lato gli aiuti di stato, grazie alla politica e alla burocrazia, alimentarono la camorra; nacque però anche la Protezione civile, organizzata su un modello opposto a quello della pubblica amministrazione e che sarà un grande successo, se si pensa agli interventi dell’esercito italiano nelle alluvioni del Po e dell’Arno.
Negli anni Novanta si tornò a parlare di politica industriale, ma quasi più di Mezzogiorno, per effetto della sollecitazione dell’Europa. La logica era ora rovesciata: meno stato e più mercato, e la politica industriale si adegua. Fu la fine delle Partecipazioni statali, con poche eccezioni, fu la liberalizzazione dei mercati dei servizi di pubblica utilità. Nascono le Autorità il cui successo cresce con l’indipendenza politica. Lo testimonia il caso dell’AEEG, Autorità veramente indipendente, ritenuta oggi a livello europeo la migliore agenzia di regolazione del settore elettrico e del gas.
Tutto questo indica che in Italia non è fruttuoso pensare a interventi emergenziali centrati sull’intervento diretto dello Stato. Questo faccia bene le cose che sono di sua stretta competenza, indispensabili per lo sviluppo nazionale e del Mezzogiorno: riformare la pubblica amministrazione, e in particolare la giustizia e la formazione, combattere seriamente la criminalità organizzata e l’evasione fiscale. E’ però vero che in situazioni di forte squilibrio, come quella attuale, l’intervento pubblico è indispensabile: i mercati non si autoregolano a seguito di forti shock, o lo fanno con lentezza e con modi socialmente costosi. E’ costoso e inutile riattivare l’impresa pubblica, per i motivi già detti: i mercati finanziari e opportune garanzie dello Stato sono oggi in grado di sostituirsi al suo intervento diretto. Oggi, come già negli anni Cinquanta, è più saggio pensare a uno Stato che assuma il ruolo di “principale” che fissa gli obiettivi di medio e lungo periodo lasciandone il raggiungimento all’azione di “agenti”, ovvero di agenzie dotate di larga autonomia, di autorevolezza e di mezzi finanziari compatibili con l’obbiettivo preposto. Questo orientamento è oggi particolarmente vero trattandosi non di salvare, ma di aprire nuove prospettive come quella dalla salute, dell’ambiente, dell’intelligenza artificiale, della biologia, etc.. La politica sia però attenta a chiedere un serio rendiconto (per intenderci non in quello attuato nei confronti di Autostrade). Vi sono molti esempi in questo senso a livello locale e regionale. A livello nazionale vi è l’esperienza interessante, ma ambigua, della Cassa Depositi e Prestiti. CDP non è nata per diventare una nuova IRI, come accenna a fare salvando Alitalia o ILVA, ma per promuovere la crescita di nuove imprese in settori nuovi.