Giornalista

Goffredo Fofi, da Elogio della disobbedienza civile, Nottetempo, Roma 2015 pp. 27-31.

 

Se è la disobbedienza civile, come sono convinto, la strada giusta per affrontare i problemi più gravi del nostro presente, è utile tornare indietro e vedere come è stata definita in passato.

Praticare la disobbedienza civile significò, per Gandhi, e dovrebbe significare per noi “porsi fuori legge in modo civile, ossia non violento. Il seguace della disobbedienza civile si espone alle sanzioni della legge e si sottopone di buon grado all’incarcerazione”. La disobbedienza civile presuppone, dunque “la diposizione a obbedire spontaneamente alle leggi, e non per timore delle sanzioni che esse prevedono”. A fianco della disobbedienza civile esiste l’obbedienza civile, ragionata, alle leggi che è giusto rispettare. Era anche questa la convinzione di Thoreau quando rifiutò di pagare, nel lontano 1846, una tassa destinata a finanziare l’esercito degli Stati Uniti in una guerra contro il Messico che egli considerava ingiusta, ribadendo tuttavia che pagava molto volentieri le tasse per la manutenzione delle strade o delle scuole. Ma l’obbedienza allo Stato non ha più senso o valore quando si sospetta o si sa che la nostra moneta servirà “a comprare un uomo o un moschetto con cui sparare a qualcuno”. Egli scrisse: “Il solo obbligo che ho il diritto di arrogarmi è quello di fare sempre e comunque ciò che ritengo giusto, e di rifiutare le imposizioni della legge [quella legge che non ha mai reso gli uomini più giusti, neppure di poco”] quando spingono a commettere atti che la mia coscienza e la mia coscienza delle cose considerino ingiusti”.

Gandhi avrebbe aggiunto: quando mi portano a collaborare con il male.

Scrive Thoreau:

“Mi piace immaginare uno Stato che possa permettersi di essere giusto con tutti gli uomini, e di trattare l’individuo con il rispetto che si ha per un proprio vicino; uno Stato, ancora, che non consideri in contrasto con la propria tranquillità il fatto che alcuni vivano in disparte, senza immischiarsi nei suoi affari e senza lasciarsene sopraffare. – Individui che abbiano compito tutti i loro doveri di vicini e di esseri umani”.

 

Henry David Thoreau (July 12, 1817–May 6, 1862)

 

Ma siccome si vive in società, in mezzo agli altri, e di una legge e di uno Stato che regoli la civile convivenza tra gli uomini si ha bisogno “ubbidirò di buon grado a quelli che sanno e possono fare meglio di me, e in molte cose anche quelli che non sanno e possono fare altrettanto bene”.

La disobbedienza civile è uno strumento a cui tutti i cittadini possono ricorrere. Nel 1946, Gandhi lesse Thoreau e individuò molto chiaramente quale dev’essere il fulcro di ogni azione di disobbedienza:

“Ogni violazione di una legge comporta una punizione. Una legge non diviene ingiusta semplicemente perché io lo affermo, tuttavia a mio parere essa rimane ingiusta. Lo stato ha il diritto di applicarla finché è contemplata nei codici, io devo resistere a essa in modo nonviolento. E lo faccio violando la legge e sottomettendomi pacificamente all’arresto e all’imprigionamento”.

Come aveva accettato di fare Thoreau nella sua breve esperienza, molti decenni prima. Il nodo della questione è tutto qui, ieri come oggi. Riguarda sia Thoreau che Gandhi ed è un nodo di civiltà che il ’900 ha voluto disattendere nella duplice convinzione – infine unificata sotto il dominio della seconda – dell’“assoluto dello Stato” e dell’“assoluto del benessere”, secondo la distinzione di Capitini, e che il 2000 sembra semplicemente ignorare, nelle ideologie unificanti e nello stesso sistema “globale” di dominio che caratterizzano i nostri anni, cui si contrappongono soltanto fondamentalismi non meno oppressivi. È il nodo, in definitiva, del rapporto dell’individuo con lo Stato, che, oltre alla presenza di Stati particolarmente oppressivi, contempla la contemporanea importanza delle ragioni di Antigone e di quelle di Creonte: della irrinunciabilità, contro lo Stato che non li rispettasse, dei diritti-doveri che appartengono alla sfera della morale e dell’umanità e di cui ogni individuo dovrebbe essere partecipe e difensore; e dell’adesione dell’individuo a quelle leggi che, riguardando tutti, permettono nei fatti un’armonica convivenza, nel rispetto di regole comuni stabilite con il concorso delle maggioranze pensanti e non manipolate, per il rispetto e la difesa degli interessi comuni. Anche se una “minoranza di uno” può e deve, se così ritiene, ribellarsi a una legge particolare.

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