Le elezioni del prossimo 4 marzo saranno un test significativo: di che cosa chiediamo alla politica, di ciò che oggi siamo, di ciò che vogliamo, ma anche dello stato di salute della democrazia.
Da tempo si parla di “crisi della democrazia”. Intorno a questa diagnosi si ritrovano molti percorsi individuali e collettivi, anche diversi e distanti, talvolta persino opposti, tra loro.
In breve: chi si adopera nel considerare la democrazia come un quadro normativo esausto, strutturalmente inadeguato nel fornire risposte politiche a società sempre più connesse e plurali; chi fa risaltare le aspre disparità che attraversano molti regimi democratici contemporanei; chi rimarca il difetto di partecipazione che percorre le istituzioni liberaldemocratiche sia a livello nazionale sia a livello sovranazionale; chi, infine, contesta l’erosione del nesso che dovrebbe unire rappresentati, rappresentanti e istituzioni.
Tra le domande che oggi si rivolgono alla politica e che spesso danno forma all’elenco di questioni che si presentano come soluzioni possibili, questo tempo segna un forte recupero di politiche, di valori, di parole che a lungo abbiamo associato a un tempo passato. Politiche e culture totalitarie che hanno caratterizzato la prima metà del Novecento. Oggi quelle politiche sono tornate a essere proposte possibili, sostenibili. Per molti convincenti.
Riteniamo che la condizione attuale che dà spazio e credito a ideologie e culture della destra estrema discenda da una lenta erosione di ascolto, dalle paure che dominano la nostra epoca, dalla propensione a risolvere la proposta politica in predicazione di bene senza ascoltare con sufficiente attenzione i luoghi critici, inquieti, in cui il malessere è vero e profondo. A lungo la politica è stata centro. Nel frattempo cresceva il disagio delle periferie, la scontentezza degli anziani, il senso di abbandono della provincia.
Ma quel malcontento non testimonia solo rabbia. Ogni volta che la democrazia ben fondata come esperienza di partecipazione ha intrapreso il suo cammino lo ha fatto prendendo in carica le domande inevase che il presente non raccoglieva. E quella attenzione voleva dire mettere al centro attori fino a quel momento non presi in carico, questioni rimaste a lungo al margine nelle agende e nei programmi del fare.
La politica oggi tra le sue sfide ha quella di dare voce e opportunità a molti soggetti, agli ultimi; a quelli che ultimi non sono, ma nel frattempo hanno perduto posizioni, che guardano con angoscia il loro presente e chiedono tutele e protezione; alle aspettative non soddisfate dei millennial, la prima generazione dopo molto tempo a essere consapevole che il proprio domani con molta probabilità sarà più incerto e precario del passato o della condizione da cui sono partiti.
È una sfida complessiva a cui la democrazia non può sottrarsi perché ambisce a non essere solo tecnica. Democrazia è consentire a una sempre crescente popolazione di avere gli strumenti, le modalità e i percorsi per dare voce e dignità ai problemi della quotidianità. In breve, innalzare la qualità del proprio vivere.
A lungo alla politica è stato chiesto di dare soluzioni problemi secondo una logica di affido, e di delega. In quella dimensione stava un doppio registro. Da una parte era la testimonianza di un disinteresse, di uno scarico di responsabilità, di un’assunzione non in prima persona delle risposte da dare alle sfide del nostro tempo. Dall’altra era anche il riconoscimento che la politica è competenza, è preparazione. Ovvero: conseguenza di un “saper fare” che spesso era anche determinato da un “sapere”.
In questo “saper fare” sta un ulteriore elemento, ovvero la doppia capacità di mettere insieme le soluzioni ai problemi locali, con le risposte da dare alle sfide contemporanee. Che è un modo per dire quale sia la sfida alla politica: la necessità di pensare un governo delle grandi questioni di oggi – dai processi migratori, alle nuove forme dell’economia, alla produzione sempre più frequente di “falsi” – e che condizionano non solo il nostro presente, ma spesso il nostro futuro prossimo e di medio-lungo periodo, in connessione con la possibilità di governo sui territori prossimi.
Noi non abbiamo una ricetta ma abbiamo pensato che la forma che rispecchiava la nostra funzione pubblica fosse prestare attenzione alle domande del nostro tempo chiedendo ai molti protagonisti di uscire dalla retorica e misurarsi concretamente sulle sfide che abbiamo di fronte: Europa, ricchezza/povertà, governo dei grandi processi migratori, sostenibilità, sviluppo, cura delle persone. Il nostro fine non è essere rassicurati. Chiediamo che la parola torni a essere esercizio di proposta dicendo quando, cosa, come e perché.