Per il guru sovranista statunitense (con qualche problema con la giustizia) Steve Bannon, le elezioni presidenziali brasiliani, con il ballottaggio di domenica 30 ottobre tra l’attuale Presidente, l’estremista di destra Jair Bolsonaro, e l’ex Presidente di centro-sinistra Lula Da Silva, sono le seconde più importanti al mondo dopo quelle statunitensi.
Non ha torto Bannon, anche se con lui e il suo amico Eduardo Bolsonaro, figlio di Jair, non si capisce mai dove finisca la notizia e cominci la fake news. Entrambi sono specialisti nella diffusione di notizie false e tendenziose, e i fratelli Bolsonaro hanno in questi anni sublimato il gioco con quello che si chiama “gabinetto dell’odio”, con il quale hanno infangato quotidianamente il campo politico brasiliano gestendo la mobilitazione di centinaia di migliaia di account, veri e falsi.
Se il primo turno del 2 ottobre ha assegnato a Lula da Silva un vantaggio di cinque punti su Jair Bolsonaro, 48% contro 43%, sei milioni di voti in più del rivale, 57 milioni contro 51, i sondaggi, che nel primo turno avevano azzeccato le percentuali di Lula e mancato completamente quelle del rivale, a prenderli per buoni dicono che la partita sia aperta più che mai. Che il Paese sia polarizzato lo sapevamo, ma il Brasile che seppe incarnare la modernità costruendo Brasilia sembra fotografare oggi più di ogni altro luogo al mondo la frattura tra il contemporaneo, il mondo che ha costruito i regimi democratici dal 1789 fino a noi, e un mondo nuovo che di quegli equilibri non sa cosa farsene.
Un mondo incarnato da Bolsonaro come da Trump, (ma anche da Putin o Orban) che si oppone alla democrazia e quindi alla fine del predominio del maschio bianco sul mondo.
Di là, alternativo fino al midollo a Bolsonaro, c’è allora il 77enne Lula, ultimo campione della sinistra novecentesca ancora su piazza, socialdemocratico e cattolico popolare al contempo, latinoamericanista, certo del ruolo del Brasile nel mondo, tornato in corsa dopo un’odissea umana che pretendeva di umiliarne l’opera di una vita di lotta: il lavoro, il sindacato, la classe (lavoratrice), l’incontro con il cattolicesimo, la rappresentanza delle enormi masse di sfruttate e sfruttati, rurali e urbane, in particolare gli afrodiscendenti, ma anche capace di vivere nel suo tempo, manovriero, in grado di tessere alleanze al centro nella parcellizzazione estrema della politica brasiliana. Che Lula possa vincere contro il Presidente uscente Bolsonaro non è il minimo sindacale, ma un fatto unico dal ritorno della democrazia in Brasile quasi quarant’anni fa. Nel Paese, infatti, il presidente in carica è stato sempre rieletto.
D’altra parte lo specifico postmoderno al quale si faceva cenno poc’anzi attesta che Bolsonaro fotografi la nostra epoca. Il consolidamento di Bolsonaro non è fenomeno banale. Da outsider qual era quattro anni fa, quando si incuneò nella lotta sporca dei “tucanos”, la destra neoliberale tradizionale, in particolare paulista, contro Lula (con il processo farsa e l’incarcerazione) è divenuto campione di una destra militarista e ultra conservatrice.
Bolsonaro incarna più che altrove uno dei fenomeni più importanti di questo volgere del secolo: la crisi del cattolicesimo in favore delle chiese evangeliche, in grado di rappresentare l’uomo della strada.
Uomo della strada spesso transitato dalla povertà alla classe media nei 14 anni di Lula e Dilma Rousseff per scoprire di avere gli stessi desideri borghesi: consumi, sicurezza e status sociale. Oltre a questi, la soddisfazione di potersi guardare indietro e vedere qualcuno che arranca dietro di lui nella certezza che il mondo sia sempre andato così e vada bene così, e continuare ad avere domestiche a tempo pieno in casa al prezzo di un pacchetto di sigarette, magari sentendosi buono quando regala loro qualche vestito dismesso per le favelas da dove quelle madri lavoratrici vengono e tornano con dolorosissima umana fatica ogni giorno.
L’analisi del voto presidenziale in Brasile di Flavia Maximo, professoressa associata dell’Universidade Federal de Ouro Preto.
È un mix potentissimo e tuttavia domenica c’è un secondo turno, difficile, aperto ma che vede la concreta possibilità di sloggiare Jair Bolsonaro dalla presidenza. Non saranno gli italiani del 25 settembre o gli statunitensi del 6 gennaio a sorprendersi di quanto in profondità sia penetrato il messaggio dell’odio, a partire da quello classista e razzista di discriminazione delle parti più fragili della società e di quanto pericolosa sia la demolizione della credibilità delle istituzioni nazionali e internazionali costruite dopo la Seconda guerra mondiale e, in America Latina, dopo il ciclo dittatoriale degli anni Settanta.
Dittatura, quella brasiliana, rivendicata ogni giorno da Bolsonaro come migliore di ogni democrazia. Per quanto sia duro pensarlo, quel Bolsonaro che resta pienamente in partita, ci dice che le classi medie bianche, in particolare nel Sud e nei grandi stati, Río e San Paolo, pensano e sono indotte a pensare che il regime democratico sia oggi un peso del quale non sanno che farsene. Una democrazia della quale si disferebbero volentieri. Domenica si vota, per fortuna, tra queste due visioni antitetiche di Brasile e di mondo.
In questi anni Bolsonaro ha isolato il Brasile dagli altri Stati sudamericani, ma senza rafforzare un’alleanza con gli Stati Uniti, in particolare dopo la sconfitta di Trump, di fatto non riconosciuta tenendo sempre pessime relazioni con Biden. L’esatto contrario della visione del Brasile di Lula, che tornerebbe a esercitare più forte il proprio ruolo di potenza in una regione per la prima volta tutta o quasi progressista dalla Terra del fuoco giù fino al confine tra Messico e Stati Uniti.
L’America Latina non è mai servita a Bolsonaro, come non serve la scienza (lo ha dimostrato con la gestione della pandemia che ha trasformato in un genocidio), la difesa dell’ambiente (la distruzione dell’Amazzonia in omaggio all’agroindustria esportatrice che lo sostiene) o l’essere Presidente di tutti.
La misoginia, il razzismo, il classismo, l’omofobia, la denigrazione di qualunque diversità, il disprezzo per i popoli originari sono il suo pane quotidiano, ma è lo ‘stile’ che evidentemente piace ai 51 milioni che l’hanno votato al primo turno.
Molti limiti ci sono nella candidatura di Lula, a partire dal rinnovamento generazionale impossibile, all’inevitabilità di circondarsi di alleati scomodi, che tra primo turno e ballottaggio lo hanno costretto a giocare solo di rimessa, alla già certezza di un Parlamento ostile.
A due decenni dalla prima volta che ha ottenuto la Presidenza, il vecchio sindacalista metallurgico non è certo il nuovo che avanza. Anche in Brasile pezzi delle classi subalterne hanno voltato le spalle al Partito dei Lavoratori, ed è difficile dar loro solo torto o incolpare solo il nemico, le oligarchie, gli oligopoli mediatici. Straordinari furono i risultati economici di Lula e di Dilma Rousseff – Presidente dal 2011 al 2016; 35 milioni di persone uscirono dalla povertà e oggi sono libere di votare Bolsonaro.
Nel 2015, in occasione dell’Expo di Milano, Fondazione Feltrinelli ha dedicato alle politiche sociali di Lula e Rousseff un ampio approfondimento. Leggilo qui ⇒
Se però Lula non è il nuovo, sei anni di Michel Temer e Bolsonaro hanno riportato indietro l’orologio della Storia: nuovamente 119 milioni di brasiliani patiscono l’insicurezza alimentare. Le politiche inclusive costano, forse, ma sono l’essenza della democrazia. Lula o Bolsonaro: quale segnale darà il Brasile al mondo intero?