Proviamo ad assumere che le pratiche pedagogiche vadano “situate”, cioè siano pratiche sensibili al contesto, all’epoca in cui avvengono e al luogo in cui si esercitano. Può sembrare un’asserzione al limite dell’ovvio, eppure non è di poco conto chiedere ad un prete che legge il vangelo, ad un insegnante che spiega la divina commedia, ad un educatore che parla di costituzione, di non partire dal testo. I testi, scritti una volta per sempre, ci rassicurano, li conosciamo, pensiamo di incarnarli per le cose che facciamo, sono giusti per definizione, non ci espongono all’errore. Le relazioni con chi abbiamo di fronte, con le sollecitazioni dello spazio in cui ci muoviamo e del tempo che viviamo sono invece incerte, sono sabbie mobili per chi è cresciuto sui sacri testi. Ma si provi a spiegare di amare il prossimo incondizionatamente a chi ha visto “il prossimo” uccidere un familiare, si faccia il tentativo di dire oggi ad un ragazzo di 25 anni che ha “la fortuna” di vivere “in una Repubblica fondata sul lavoro”. Lo stesso messaggio può essere d’ispirazione per qualcuno e risultare irricevibile in altre situazioni.
Prendersi a cuore la propria comunità, impegnarsi per gli altri, spendere tempo ed energie per fare qualcosa: l’educazione alla cittadinanza attiva è questo. Qual è il modo migliore per comunicare e diffondere questo messaggio senza risultare fuori luogo, fuori tempo?
Rompiamo un altro tabù: non ci sono i buoni, gli impegnati e generosi, e poi gli “altri” egoisti, retrogradi e ottusi. Assumiamo che le persone abbiano le proprie ragioni per agire in un modo o nell’altro, ovvero che la fortuna di crescere e formarsi in un contesto sereno possa aiutare la costruzione della fiducia nell’azione di aiuto, mentre condizioni di ristrettezza o convivenza forzata non formino la propensione a spendersi per il prossimo, appena si può decidere del proprio tempo. Gli studi sui gemelli omozigoti dimostrano che è l’ambiente e non il patrimonio genetico a determinare i destini delle persone. Sono i contesti a formare e modificare i comportamenti in modo decisivo.
Ma dove ci si trova a vivere? È una domanda fondamentale per capire le chance dell’educazione alla cittadinanza attiva, che in fondo è dedizione agli altri, ricerca di un bene comune attraverso l’impegno personale. Sono i principi attivi dell’educazione – che possiamo semplificare in due elementi, “l’azione” e “gli altri” – che vanno situati, cioè letti rispetto alle sollecitazione dell’epoca e del Paese.
Una vignetta di Gabriele Galantara disegnata per L’Asino, rivista tratta dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Veniamo da anni di primato dell’individuo, del soggetto, dell’io, non certo della collettività, del tu, dell’altro. Esito paradossale di lotte importanti in difesa dei diritti civili, delle minoranze, degli esclusi, ci siamo trovati dentro perimetri di rivendicazione via via più circoscritti fino a ricomprendere al loro interno sempre meno persone, e ritrovarci soli. Forse perché nel frattempo il mercato e il consumo intercettavano l’istanza legittima di prendere voce piegandola nell’illusione di un primato personale, ci allenavano a dismettere il noi per coltivare un io, libero e quindi mutevole, giocoforza consumista. Come se si fossero unite nitro e glicerina, all’epoca celebrativa dell’io è seguita quella della demonizzazione dell’altro. È la stagione di paura che viviamo al giorno d’oggi, oppressi dalla minaccia di attentati ‘a casa nostra’, col pensiero di essere in pericolo senza essere in guerra, convinti che i nostri diritti e il nostro primato siano precari per la crisi che avanza.
“Situare” significa chiedersi come fare cittadinanza attiva quando il sottofondo è quello del “si salvi chi può”, come coltivare la fiducia e la dedizione verso gli altri se i messaggi forti sono quelli di rivendicazione identitaria, difesa dei confini, coltivazione del proprio. C’è chi forse ha davvero esperienza di conflitti e minacce, ma per molti non è l’esperienza bensì le antenne alzate su quelle voci a generare diffidenza, sfiducia. Eppure non si tratta di una paura meno vera, meno viva.
L’esperienza di ricerca e intervento sociale insegna che non si parte dai testi, non si sovrascrivono i principi della costituzione all’evidenza di esperienze o stati d’animo che sono più forti, perché personali. Né si parte dagli eroi, dalle retoriche di gesti estremi, dall’idea del sacrificio come dovere morale. È necessario partire dalla vita delle persone, dalla loro quotidianità, da perimetri di gesti che stanno nelle possibilità di ciascuno e vanno immaginati a misura di ciascuno: dal piacere e dal senso di utilità che vedi e vivi sulla tua pelle, alle gratificazioni che ricevi dal mondo quando agisci per esso. Leve civiche, dove viene chiesto a ciascuno ciò di cui ha bisogno e cosa invece può fare. I grandi principi, i grandi valori, o quel che si vuole in un’epoca come questa vanno riguadagnati passo dopo passo. Utilizzarli come insegne per mobilitare giovani e ragazzi serve solo a dividere i già convinti dagli altri. Allestire opportunità di intervento, riabilitare l’azione e gli altri: è la creazione di esperienze pratiche di aiuto, cura, impegno che ridefinisce il senso di quei principi sulla pelle di una generazione troppo distante da chi ha scritto i sacri testi per sentirli immediatamente come propri.
Così, mentre pulisci l’aiuola sotto casa, aiuti i figli del vicino a fare i compiti, sistemi i libri della biblioteca rionale la domenica mattina, avverti il piacere di relazioni positive, sviluppi fiducia, vedi la comunità come campo di azione possibile. La cittadinanza è il traguardo conquistato giorno dopo giorno con l’esperienza, unico vero antidoto ad uno “spirito del tempo” che ci vorrebbe chiusi in casa.