Qui di seguito riportiamo un estratto del libro Economia fondamentale. L’infrastruttura della vita quotidiana scritto dal Collettivo per l’economia fondamentale. Si ringraziano gli autori e l’editore Einaudi per la gentile concessione.


Il libro sviluppa l’idea – decisamente trascurata negli approcci consolidati all’economia, alla società e alla politica — che il benessere dei cittadini d’Europa dipenda non tanto dai consumi individuali, quanto dal consumo sociale di beni e servizi essenziali, ovvero dallo stato di salute di quella che chiamiamo economia fondamentale: l’acqua, i servizi bancari di prossimità, le scuole o gli istituti di cura, e via dicendo.

Mentre i consumi individuali dipendono dal reddito di ciascuno, l’economia fondamentale è una questione strettamente politica, perché dipende dall’esistenza (e dalla qualità) di infrastrutture e di sistemi di distribuzione: apparati che non si creano e non si rinnovano in maniera automatica, neppure quando il reddito aumenta, e che in molti casi neanche i più ricchi possono procurarsi individualmente. Ecco, dunque, perché il ruolo primario e distintivo delle politiche pubbliche dev’essere quello di assicurare la disponibilità di servizi di base per tutti i cittadini.

Se lo scopo è il benessere dei cittadini – la prosperità di molti e non di pochi – allora le politiche europee, a livello regionale, nazionale e comunitario, devono essere riorientate sul consumo di beni e servizi fondamentali e su garanzie universali di accesso e di qualità. Da cinquant’anni si discute se lo Stato debba continuare a essere il protagonista di questo spazio economico.

Si tratta di un dibattito importante, perché, come mostreremo, la privatizzazione e l’esternalizzazione (outsourcing) dei servizi fondamentali sono pratiche dannose. Ma c’è anche un’altra questione, spesso trascurata, alla quale bisogna prestare attenzione: il benessere delle persone non dipende soltanto dal reddito individuale e non può essere garantito semplicemente perseguendo una crescita dei redditi, perché neanche il più alto reddito individuale può assicurare l’accesso a beni e servizi fondamentali che non siano fruibili collettivamente.

Le prime generazioni di socialisti e collettivisti liberali l’avevano compreso molto chiaramente. Secondo Richard H. Tawney, l’acqua corrente e i servizi igienici avevano trasformato le grandi città, dimostrando che la società soddisfaceva «bisogni ai quali nessun individuo comune, persino se lavora tutta la sua vita, può provvedere da solo».

Nel 1958 John Kenneth Galbraith ripropose il problema in termini di equilibrio sociale: negli Stati Uniti, mentre i redditi individuali crescevano, le scuole e i trasporti pubblici andavano peggiorando e aumentava l’inquinamento; a fronte della crescente opulenza di pochi, dilagava la povertà pubblica. Concentrarsi sulla produzione di beni essenziali — avvertiva Galbraith — avrebbe anche aumentato la stabilità del sistema economico, perché – a differenza dei beni di consumo privato — beni di pubblico accesso come le scuole, gli ospedali e le biblioteche sono meno soggetti «ai capricci del processo di creazione dei bisogni e dei relativi debiti».

Negli ultimi cinquant’anni, i Paesi ad alto reddito non hanno fatto altro che accrescere lo squilibrio fra opulenza privata e miseria pubblica, promuovendo un’idea angusta di politica economica, nella quale le priorità vengono poste dall’alto. La politica pubblica è elaborata da élite tecniche e politiche, talora sotto forma di accordi che, all’apparenza, enfatizzano la scelta e la responsabilità individuale. I cittadini, in realtà, si limitano a subire. Sin dalla Seconda guerra mondiale, attraverso la politica fiscale e monetaria, «l’economia» è stata gestita in vista della crescita del prodotto interno lordo, e il benessere è stato perseguito principalmente attraverso il consumo individuale, basato sulle retribuzioni.

Dai tardi anni Settanta, si è aggiunta la propensione a privilegiare la concorrenza e i mercati, tramite riforme strutturali che hanno reso i mercati del lavoro più flessibili e hanno introdotto privatizzazioni e outsourcing di ampia scala. I servizi fondamentali e le relative infrastrutture sono rimasti in secondo piano. Si è predicata l’idea che il supporto al reddito debba essere minimo, per non disincentivare al lavoro; che l’istruzione debba creare competenze professionali immediatamente spendibili; che i servizi sanitari debbano essere finanziati

attraverso le tasse sui redditi (invocando però il taglio delle aliquote fiscali) oppure resi accessibili soltanto a pagamento.

A partire dagli anni Ottanta, le politiche pubbliche hanno perseguito l’ideale di un’economia di mercato per il XXI secolo e, nei suoi primi decenni, hanno finito per ricreare un capitalismo predatorio in cui i livelli di disuguaglianza dei redditi e dei patrimoni ricordano quelli del XIX secolo. La stagnazione dei redditi in tutta Europa ha incrinato persino il consolidato vantaggio elettorale dei partiti centristi di governo. Quest’esito economico è stato esaminato in profondità da Thomas Piketty nel libro Il capitale nel XXI secolo.

Tuttavia, la diagnosi di Piketty è molto più pregnante del rimedio suggerito — redistribuire tramite un’imposta globale sulla ricchezza — che egli stesso riconosce essere «utopistico». Qui cerchiamo di evitare prese di posizione prettamente utopistiche, riprendendo e aggiornando alcuni ragionamenti «tradizionali» sui servizi fondamentali. […] Malgrado il deprimente scenario europeo, il nostro obiettivo è mostrare che il cambiamento è praticabile, a cominciare appunto dall’economia fondamentale.

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