Psicologo, psicoterapeuta, dottore di ricerca

Dopo decenni passati a escludere la fragilità dalla narrazione delle nostre vite, l’emergenza climatica ci ha costretto a tornare alla realtà. Un impatto che colpisce soprattutto i più giovani, tra i quali l’eco-ansia è sempre più diffusa

 

Ho iniziato il 2022 guardando Don’t Look Up, film prodotto da Netflix, diretto da Adam McKay e con un super cast di attori, tra cui Leonardo Di Caprio e Jennifer Lawrence. La trama? Un disaster movie in cui si immagina la distruzione del nostro Pianeta che l’uomo, per colpa della sua stupidità e negazione dell’evidenza, non riesce a evitare. Il film esce dopo la fase emergenziale di una pandemia (tutt’ora in corso), poco prima di una guerra nel cuore dell’Europa (tutt’ora in corso) e nel bel mezzo di un processo inarrestabile di cambiamento climatico.

 

Ci siamo illusi di uscire dalla pandemia come persone migliori, ma ancora adesso, dopo due anni e mezzo, siamo ossessionati non tanto dal desiderio di guardare al futuro con progettualità, ma dall’ansia di non perdere tempo. Dopo settimane in cui la guerra in Ucraina è stata protagonista su tutti i media, ora siamo infastiditi e stanchi di immagini e parole legate al conflitto: Cecilia Sala in uno degli episodi del suo podcast Stories li definisce come effetti secondari sulla società della fog of war. Tuttavia, la guerra sta drammaticamente continuando, ma noi preferiamo negarcelo.

 

Da anni, scienziati, climatologi, commissioni internazionali sul clima e sull’ambiente lanciano l’allarme che siamo oltre il punto di non ritorno per quanto riguarda la cura del nostro Pianeta e delle specie che lo abitano. La deforestazione, l’aumento di CO2 nell’atmosfera, la siccità, l’innalzamento del livello dei mari, lo scioglimento dei ghiacciai, sembrano non essere sufficienti a renderci consapevoli.

 

Continuiamo imperterriti a precipitare nella negazione, e la negazione insieme al diniego sono i meccanismi di difesa per eccellenza che vengono messi in atto quando sentiamo di avvicinarci a temi legati alla morte: sia quella provocata dal Covid, dai bombardamenti, oppure la morte del nostro Pianeta.

 

Non sono un virologo, né un esperto di geopolitica, né tantomeno un climatologo. Faccio lo psicoterapeuta e oltre ad accogliere e incontrare le varie forme di sofferenza e di vulnerabilità delle persone, sono portato a rileggere e osservare con lo sguardo della complessità l’impatto che le dinamiche contemporanee hanno sulla gente e sulla società intera. Se intervenire sull’impatto che la pandemia ha avuto sul benessere psichico e le dinamiche relazionali può sembrarvi scontato, vi assicuro che l’angoscia e la preoccupazione per il futuro del nostro Pianeta sta abitando sempre di più le persone e le stanze di psicoterapia.

 

Viene chiamata eco-ansia, un termine che cattura le esperienze di ansia relative alle crisi ambientali. La forma più prevalente di eco-ansia sembra essere l’ansia climatica, significativamente legata al cambiamento climatico antropogenico, compreso il riscaldamento globale. Allo stesso tempo si compone anche di forme d’ansia relative a una molteplicità di calamità ambientali, che possono o meno essere direttamente causate dai cambiamenti climatici, inclusa l’eliminazione di interi ecosistemi e specie vegetali e animali, l’inquinamento globale di massa e la deforestazione.

 

Sebbene quindi l’eco-ansia non sia attualmente considerata una condizione medica, l’American Psychiatric Association l’ha definita una “paura cronica del destino ambientale”.

 

Ci sono alcuni fattori che rendono una persona, o un gruppo, più vulnerabile all’eco-ansia. Questi includono la giovane età, l’elevata esposizione a problemi ambientali fisici e la forte esposizione a notizie inquietanti sulla crisi ecologica.

 

Le donne sembrano essere maggiormente sensibili a tali emozioni rispetto agli uomini. I professionisti della sostenibilità e gli attivisti ambientali soffrono di una maggiore eco-ansia, sebbene abbiano anche alcune risorse speciali che aumentano la resilienza, come il senso di efficacia e la possibilità di intervento.

 

Indipendentemente dalla sua espressione, l’eco-ansia ha effetti duraturi sul benessere emotivo e la sua incidenza è in costante aumento. Tale tendenza riflette le preoccupazioni degli psicologi circa un drammatico aumento del numero di pazienti che mostrano i suddetti sintomi e ciò ha portato alla richiesta di una maggiore attenzione alla comprensione dei legami tra il cambiamento climatico e la salute mentale.

 

Ora, il rifiuto della consapevolezza di quanto sta accadendo al nostro clima – anche in questa estate che non è quella più calda che abbiamo mai affrontato, ma sarà senz’altro la più mite di quelle che vivremo – e di quanto è già fragile il nostro Pianeta, è solo l’ennesimo esempio di una dinamica psichica che si è sempre più affermata negli ultimi anni, nella società contemporanea, ovvero il rifiuto della fragilità, del limite e della vulnerabilità.

 

A partire dal Secondo Dopoguerra, abbiamo via via soffocato ogni discorso sulla fragilità, sul dolore e sul senso del limite. Negli ultimi anni le campagne pubblicitarie, i meme motivazionali sui social, così come l’esplosione di libri sulla crescita personale, si sono sempre più centrati sulla comunicazione dell’assenza del limite, che “il solo limite che esiste è quello che scegli tu”, della filosofia del do more a ogni costo o del “non si molla di un centimetro”.

 

Al pari della siccità che da mesi sta colpendo il nostro territorio, la recente tragedia della Marmolada è diventata non solo nuovo simbolo dell’evidente cambiamento climatico, ma anche la rappresentazione di un baratro psichico entro cui scivolano le nostre angosce performative.

 

Abbiamo via via trasformato la fragilità in un cancro da rimuovere chirurgicamente e in questo modo stiamo educando i nostri figli al rifiuto della vulnerabilità. In che modo? Trasformando in performance ogni nostro ambito della vita. La società dello spettacolo così definita nel 1967 dal filosofo Guy Debord e che anticipò di un anno la profezia di Andy Warhol secondo la quale “nel futuro tutti potranno avere i loro 15 minuti di celebrità”, è morta.

 

Dalle sue ceneri è nata la società della performance dove la definizione della nostra identità lascia spazio alla costruzione di un brand identitario, in cui ogni relazione all’interno della quale siamo immersi diventa prestazione. Dalle relazioni di coppia a quelle genitoriali o amicali, dal nostro atteggiamento al lavoro a come gli studenti vivono il rapporto con la scuola o con lo sport.

 

La società della performance ci fa vivere costantemente all’interno della competizione, e ci costringe a farci sentire in colpa tutte le volte che sentiamo il bisogno di fermarci o di rallentare, come ci ricordano Andrea Colamedici e Maura Gancitano di Tlon che da anni sui social e nelle loro pubblicazioni sono portavoce di questo sguardo sulla contemporaneità.

 

Sentiamo l’ansia di correre a doppia velocità, come un vocale ascoltato a velocità 2x su Whatsapp, perché sentiamo che dobbiamo recuperare del tempo perduto in passato e temiamo di non avere un futuro visto che l’inimmaginabile è già accaduto e potrebbe accadere di nuovo.

 

Ancora una volta, purtroppo chi ne sta pagando le maggiori conseguenze sono adolescenti e giovani adulti. Lo so, questa affermazione ormai, da due anni a questa parte, sta diventando un cliché. I ragazzi, quelli che stanno dimostrando di essere più preoccupati per le sorti del nostro Pianeta.

 

Quelli che in questa torrida estate obbligano i genitori a non accendere l’aria condizionata e non sprecare acqua. Quelli del movimento di Friday for Future e che si sentono imprigionati in un ossimoro, tra genitori che con modalità paternalistiche dicono che sono pigri e disinteressati, ma che poi li squalificano se a tavola parlano con ammirazione di Greta Thunberg. Ragazzi che sentono di non fare mai abbastanza, perché nella società della performance tutti si guardano intorno e pensano “Guarda quante cose fanno gli altri e quanto poco faccio io. Guarda quanto sono attivi, belli e pieni di interesse gli altri, mentre io sono così passivo e faccio schifo”.

 

Ovviamente questa narrazione di sé viene amplificata dai contenuti dei social in cui siamo obbligati a mostrare solo il volto del successo e della perfezione. Riappropriamoci del fallimento e dell’imperfezione.

 

Jack London, in Racconti di solitudine, una raccolta dedicata alle sue esplorazioni nel Grande Nord in cui non racconta narcisisticamente delle sue conquiste ma delle rinunce e fallimenti del viaggio, scrive che “la natura ha tanti espedienti per convincere l’uomo dei suoi limiti”. Oggi, nel suo essere controcorrente, sono sicuro che non inciterebbe all’imperativo di rialzarsi velocemente, quanto al permetterci di rallentare, fermarci e cadere, con imperfetta disciplina.

Fotografia: Mika Baumeister
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