Per cercare di rompere le distanze che nei prossimi mesi dovranno essere rispettate in classe per via del contagio da evitare dobbiamo prestare grande attenzione all’ascolto e alla voce di tutti, mettendo particolare cura nello scambio di parole e sguardi.
C’è una sola possibilità per dare la parola a bambine e bambini nella scuola: che noi insegnanti si impari a parlare un po’ di meno e ad ascoltare di più. Del resto, come dice con espressione icastica un mio amico irakeno, ci sarà qualche motivo per cui ci hanno creato con una sola bocca e due orecchie.
Così armiamoci pure in più occasioni di mascherine in classe e sciogliamo la rigidità di uno spazio che rischia di restare per troppo tempo congelato e sempre uguale a se stesso, mettendoci in cerchio, magari seduti a terra, praticando più che mai una pedagogia dell’ascolto fondata sul dialogo.
Per condividere regole inusuali, che limitano grandemente il libero muoversi nello spazio di bambine e bambini, dobbiamo infatti discuterne a lungo, mediare, creare un clima di partecipazione attiva che renda possibile la più ampia condivisione di scelte che riguardano la salute e la sicurezza di tutti, compresi genitori e nonni che non sono in classe con noi. Un vero e proprio esercizio di democrazia che ci alleni a essere un po’ meno chiusi in noi stessi, incatenati alle nostre esigenze immediate, e po’ più lungimiranti.
Qualche anno fa, in quarta elementare, Nisrin un giorno ha detto che, quando siamo in cerchio, “il canto solleva e porta in giro l’anima per la stanza”. È dalla prima elementare che sono colpito dalla ricchezza delle metafore che a volte ci propone, superando la sua timidezza. La sua famiglia viene dal Marocco e sempre più mi vado convincendo che il modo in cui racconta come le cose viaggino tra l’interno e l’esterno della mente e del corpo sia nutrito da immagini che provengono dalla sua cultura, che purtroppo ignoro.
Scuole dell’infanzia e scuole primarie sono luoghi pubblici particolarmente delicati e preziosi oggi, perché è lì che i più piccoli compiono i loro primi passi verso una possibile convivenza pacifica tra culture, nutrita da curiosità reciproche, da inventare e reinventare ogni giorno.
Chiedere ai bambini figli di immigrati di parlare esplicitamente delle proprie origini, della propria famiglia o della terra di provenienza spesso è controproducente, perché scivola facilmente in un paternalismo inconsapevolmente invasivo. Bambine e bambini sperimentano sulla loro pelle, di diversi colori, quanto sottile sia il confine tra la percezione della diversità e pratiche più o meno coscienti di discriminazione. Molti, infatti, reagiscono facendo di tutto per essere o apparire come gli altri.
Eppure, le potenzialità delle tante differenze che abitano le nostre scuole sono enormi e le maestre e maestri più sensibili e attenti si domandano come rendere vivo questo fragile e necessario laboratorio del futuro, questa sorta di pronto soccorso culturale che è la scuola di base nel nostro Paese oggi, quando riusciamo a farne un luogo di scambio e di incontro tra le tante diversità che sempre più popolano le nostre classi.
In fondo siamo qui per crescere, per trasformarci, e farlo insieme tra diversi. Pur comportando maggiore impegno e fatica, crescere ci aiuta ad aprirci un po’ di più e a scoprire parti nascoste di noi, imparando a entrare e a giocare con le metafore degli altri.
Sempre Nisrin, in terza elementare, un giorno ha detto: “La matematica è un omino che va in bicicletta dentro la testa. Se si ferma cade, se riesce a correre risolve i problemi”. L’immagine mi è sembrata così bella che l’abbiamo scritta in grande sul muro. La trovo particolarmente efficace e ogni volta che osservo un bambino in difficoltà di fronte a un problema, penso a quel disequilibrio e a quella caduta di cui ci ha parlato Nisrin, che nasce da una sua difficoltà reale, sofferta.
Poi un giorno Pedro, il papà di un’altra bambina, che è uruguaiano e sta studiando l’arabo, mi informa che in arabo matematica si dice alriyadiat, parola che nomina lo sport e dà l’idea dell’esercizio del cervello. Il papà di Nisrin aggiunge che forse v’è persino l’idea di acrobazia. Scopro così che l’origine della metafora di Nisrin sta nella lingua che parla in casa e in cui a volte pensa e forse sogna.
Diversità è ricchezza è un bello slogan, che rischia tuttavia di essere retorico. Diversità è anche fatica, sforzo, difficoltà da affrontare. Solo se percorriamo con consapevolezza e convinzione la lunga strada verso un autentico e sincero ascolto reciproco possiamo tentare di trasformare il gruppo classe in una piccola comunità provvisoria capace all’ascolto, di cui c’è particolare necessità ora, che dobbiamo prendere con convinzione decisioni vitali e condividere scelte sui nostri comportamenti. Ma si costruisce davvero comunità, a mio avviso, quando ci sorprendiamo e ci stupiamo gli uni degli altri, quando i nostri ruoli e le nostre posizioni non si cristallizzano. Se ci riflettiamo, ogni relazione soffre e si avvilisce quando diamo per scontato ciò che ci aspettiamo dall’altro.
Ora, poiché nella cultura e nell’apprendimento tutto è relazione, è intorno alla qualità della rete dei rapporti che si stabiliscono tra noi – e tra ciascuno di noi e gli oggetti culturali che siamo chiamati a esplorare – che dobbiamo tessere la fragile tela della reciprocità. Ma se io che insegno non faccio un passo indietro, non faccio cioè un po’ di silenzio, è impossibile che mi metta davvero in ascolto.