Elina Tuve* ha varcato per la prima volta il confine di Siret, tra Ucraina e Romania, in una fredda serata di inizio marzo. Stringeva nelle mani la sua valigia e il borsone di Adam, suo figlio di sette anni. Tremava, non solo per il freddo: “Vengo da una città che non esiste più: Borodjanka. Non so cosa fare, sono sola e ho paura”, raccontava all’interno della tenda numero 11, quella dedicata ai profughi che volevano venire nel nostro Paese. “Ora proverò ad andare a Napoli dove ci sono delle persone che conosco”.
A distanza di otto mesi la nuova vita di Tuve è nella cittadina campana. La donna lavora in una pizzeria, suo figlio Adam va a scuola. Dall’inizio del periodo di accoglienza ha ricevuto aiuto per orientamento al lavoro, ha frequentato un corso di italiano ed è riuscita a fare il ricongiungimento familiare portando in Italia anche sua madre e sua sorella.
“Quando sono arrivata sono stata accolta in un centro a Benevento, dove c’erano altre persone provenienti dall’Ucraina. Ci hanno aiutato in tutto, dalle vaccinazioni all’iscrizione a scuola dei nostri bambini. Poi ho trovato questo lavoro che mi piace, piano piano sto riuscendo a farcela da sola”.
Dal 24 febbraio all’11 novembre 2022 sono 173.231 (92.133 donne, 31.700 uomini e 49.398 minori) i profughi ucraini arrivati in Italia. La maggior parte ha trovato accoglienza nelle grandi città: Roma, Milano, Napoli e Bologna. In molti si sono appoggiati alla rete di amici o da parenti e connazionali già presenti nel nostro Paese.
Una parte è entrata nel sistema di accoglienza: secondo i dati del Viminale al 27 giugno, 12.214 persone sono ospitate nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) e altre 1.090 nella rete Sai (Sistema di accoglienza e integrazione). Inoltre, tra il 2021 e il 2022, a seguito della crisi umanitaria di Afghanistan e Ucraina il sistema di accoglienza e integrazione ha avuto un’importante crescita, passando dai 34,744 posti a dicembre 2021 ai 44,591 posti di ottobre 2022.
Il flusso massiccio delle persone in fuga in pochi mesi ha doppiato gli arrivi annuali registrati alle frontiere marittime e ha avuto un impatto consistente sul sistema italiano, che ha risposto anche sperimentando un modello nuovo. È stato previsto un contributo economico innanzitutto per le persone che hanno trovato una sistemazione privata.
Inoltre, per la prima volta, le organizzazioni del terzo settore sono state coinvolte direttamente nella gestione attraverso un bando della Protezione civile, che ha previsto progetti per la cosiddetta “accoglienza diffusa”, realizzata attraverso la rete dei comuni o direttamente dalle associazioni. A rendere possibile la buona gestione sono state anche alcune norme straordinarie applicate a livello europeo e nazionale.
Il 28 marzo, con un decreto del presidente del Consiglio, l’Italia ha recepito la decisione dell’Unione europea di attivare per la prima volta la direttiva 55 del 2001 sulla “concessione della protezione temporanea” ai profughi: le persone che risultano residenti, che hanno un permesso di lungo soggiorno o un permesso di protezione internazionale in Ucraina possono ricevere subito accoglienza; possono, inoltre, cominciare a lavorare e a usufruire dei servizi socioassistenziali. La direttiva sarà attiva fino al 2024
Per molti, proprio come per Elina, è andato tutto come doveva andare. Non è successo lo stesso per Hilary Inge, un ragazzo nigeriano di 23 anni, che studiava medicina a Kiev. Anche lui è scappato dal conflitto in Ucraina, e dopo aver passato un periodo in Polonia, a Varsavia, con un volo umanitario è riuscito ad arrivare in Italia. È stato accolto ad Assisi, dove ha provato a ricostruirsi una vita. Ma a distanza di mesi è stato costretto ad andare via perché non rientrava nella direttiva. Le persone che hanno gestito la sua accoglienza in Italia hanno provato invano a convincere la prefettura che anche Hilary era in fuga dalla guerra e che voleva solo iscriversi all’università.
Inutile, dopo aver ricevuto un diniego il ragazzo è andato in Portogallo dove la sua domanda, invece, ha avuto esito positivo.
Molti esperti di diritti in questi mesi hanno parlato del rischio di un doppio standard di protezione e del rischio di creare profughi di serie A e profughi di serie B. L’applicazione della stessa direttiva 55 del 2001 in questi ventuno anni è stata chiesta invano anche per altre crisi, da ultima quella afghana, dopo il ritorno dei talebani a Kabul.
Ma il pericolo di un doppio standard c’è anche nel racconto mediatico che spesso si fa del tema migratorio, prediligendo alcuni contesti, dimenticando guerre e conflitti geograficamente più lontani, raccontando solo una parte della storia. O semplicemente rendendo migranti, richiedenti asilo e rifugiati sempre e soltanto oggetto della narrazione, mai soggetto attivo.
In una comunicazione spesso bulimica e stereotipata non trovano spazio le storie positive di integrazione e riscatto, come i progetti di inserimento lavorativo che spesso permettono di passare dall’assistenzialismo a una vita autonoma. Si tende piuttosto a raccontare il tema come un “problema” o un “peso” per la comunità mai come un’opportunità.
Non si racconta, per esempio, che dei servizi socio sanitari attivati per i migranti spesso beneficiano tutti i soggetti più vulnerabili. Non si dice che in alcuni settori l’apporto della componente straniera è fondamentale.
L’estate scorsa, l’artista Jago ha depositato una statua su ponte Sant’Angelo, nel cuore di Roma. Era distesa a terra, dello stesso colore dell’asfalto. Rappresentava un profugo appena sbarcato. Le persone che passeggiavano sul ponte se la trovavano davanti quasi come un inciampo: c’è chi l’ha presa a calci, chi le ha spezzato un braccio, chi l’ha messa in un angolo perché non fosse calpestata.
E chi ci si è soffermato solo il tempo di un selfie. In questi anni, si è spesso ripetuto che bisogna sottrarre il fenomeno migratorio alla propaganda, ai “calci” di chi urla sempre contro per convenienza. Chi fa informazione ha dunque il dovere di uscire da una logica opportunistica, che vede nella migrazione una continua emergenza, raccontando, invece, con correttezza la natura strutturale di un fenomeno che da anni interessa il nostro Paese.
Seppur con tanti limiti, soprattutto burocratici, il sistema attivato per i profughi ucraini ha tracciato un modello e ha mostrato che si possono gestire anche numeri alti di persone senza che il sistema collassi. E questo non solo nell’interesse di chi arriva in cerca di aiuto ma anche delle comunità che accolgono.