Restiamo umani è la formula con cui Vittorio Arrigoni firmava i suoi pezzi per il Manifesto e per il suo blog. “Un invito”, scriveva “a ricordarsi della natura dell’uomo”.
Verrebbe da chiedersi quale significato possiamo attribuire a quella parola, “umani”, in questi tempi per molti versi “disumani”. Qual è la natura dell’uomo che si vorrebbe ridestare?
Una domanda abissale in cui si agitano secoli di idee e pratiche culturali, movimenti artistici e dispute filosofiche. Una domanda che, da un lato, ci riporta a quella scena originaria in cui si è iniziato a parlare di dignità dell’uomo e da cui culturalmente proveniamo: l’umanesimo; e che dall’altro ne chiama in causa i detrattori: chi, a partire dal secolo scorso fino ad oggi, ha riconosciuto proprio nell’umanesimo l’origine di quelle categorie disgiuntive, riconducibili alla dicotomia natura/cultura, che hanno separato il vivente in zone di diverso valore: l’uomo dall’animale, ma anche l’uomo dalla donna, l’uomo razionale dal pazzo e quello sano dal malato, l’uomo bianco e occidentale dagli altri abitanti del pianeta.
Chi è quell’uomo cui ci si vorrebbe appellare quando si tratta di ricordarsi che, a qualsiasi latitudine e a dispetto di ogni confine, siamo fatti della stessa carne?
È l’uomo vitruviano – simbolo per eccellenza dell’umanesimo – che si propone come fine e misura ultima di tutte le cose? L’uomo che si definisce per differenza da ciò che non è: l’altro, lo straniero, il diverso? L’uomo che ha negato i debiti che, nel corso della sua evoluzione, ha contratto con l’alterità, in particolare con l’alterità animale e con l’alterità tecnologica?
L’Uomo vitruviano, di Leonardo da Vinci, inchiostro su carta, conservato nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe delle Gallerie dell’Accademia di Venezia
Se è questo l’uomo e l’idea di umanità che abbiamo in mente, forse finiamo per incappare in una visione ristretta, inospitale, escludente dell’umano: una visione che rischia di lasciare storie, comunità, forme di vita, intere esistenze fuori dai presunti confini “naturali” dell’umano, presenze spettrali che ne restano ai margini, prive di riconoscimento e cittadinanza.
Forse oggi i tempi sono maturi per assegnare un significato diverso all’immagine dell’uomo vitruviano: invece di leggere l’atto di aprire le braccia come gesto di misura dell’universo, dovremmo sforzarci di interpretarlo come abbraccio di accoglienza. Come disposizione a riconoscere la nostra apertura costitutiva, il nostro statuto ibrido, meticcio, di dialogo con l’alterità, sia essa il mondo animale (la teriosfera), l’ambiente o la tecnosfera (il mondo della tecnica e delle macchine, si pensi oggi alla figura del cyborg).
Gli indizi per questa lettura dell’umano c’erano già in quella scena iniziale: in quell’umanesimo che alcuni oggi riconoscono come matrice dell’atteggiamento predatorio e autarchico che ha disgiunto l’uomo – un certo tipo d’uomo – dal resto del vivente.
Basti tornare alla celebre orazione di Pico della Mirandola De hominis dignitate, una sorta di manifesto dell’umanesimo italiano. Come spiega Roberto Esposito, l’aspetto più interessante e innovativo del testo di Pico è quella rappresentazione insatura, forata, sfuggente dell’essere umano, laddove lo definisce come “opera dall’immagine non definita (indiscretae opus imaginis)”, cui Dio non assegna “una dimora certa, né un sembiante proprio, né una prerogativa peculiare”.
Ciò che è in gioco, nelle parole di Pico scrive Roberto Esposito in Pensiero Vivente (Einaudi) “non è più soltanto la tradizionale collocazione dell’uomo nel punto mediano di una scala gerarchica che ha ai propri estremi l’angelo e la bestia; (…) quanto la rottura di quello schema classico a favore di una nuova dinamica che ha al suo centro il transito dall’essere al divenire: l’uomo non è altro da ciò che diviene”.
Già nell’orazione di Pico della Mirandola troviamo dunque un elemento dinamico che fa dell’uomo una figura sempre in transito, che ricontratta la sua identità con un’alterità che lo abita consegnandolo alla sua natura relazionale. Restare umani, o meglio divenire umani significa allora ammettere che noi tutti ci costruiamo nel rapporto con il mondo, con le cose, con la natura. Che la nostra identità non ha confini netti, ma resta “indiscreta”, indefinita. Che il dovere dell’accoglienza nasce dal non avere “una dimora certa”. Che siamo simili perché già altri da noi stessi.