Per le caratteristiche della società attuale, imparare a gestire la complessità è divenuto un obiettivo evolutivo fondamentale, una risorsa che può garantire la sopravvivenza e al tempo stesso consentire una crescita personale soddisfacente. Tutti i cambiamenti degli ultimi cinquant’anni (si pensi allo sviluppo delle nuove tecnologie, agli effetti della quarta rivoluzione industriale, ai nuovi modelli educativi familiari, alle caratteristiche delle società fluide etc.) hanno reso la capacità di gestire la complessità una meta-competenza imprescindibile; una sorta di competenza di secondo livello che si avvale di numerose abilità e strategie specifiche, come ad esempio il pensiero critico e la flessibilità, il ragionamento strategico e quello creativo, la disponibilità ad apprendere (learnability) e la diversità come risorsa (diversity learning e diversity thinking).
Non si tratta di dimensioni esclusivamente cognitive ma esistenziali e identitarie, soprattutto se si considera l’esperienza di apprendimento non tanto come l’effetto di un’azione intenzionale volta a memorizzare e riprodurre un nuovo dato, quanto una condizione più ampia, connessa a scopi più o meno consapevoli, di adattamento all’ambiente, in cui si trovano ad agire emozioni, affetti, appartenenze sociali, rappresentazioni e miti culturali.
L’incontro con il non conosciuto, con l’inatteso e imprevedibile o il totalmente altro da sé costringe l’individuo a mantenere una disponibilità al cambiamento e alla trasformazione; pur rimanendo sé stesso deve potersi modificare: giungere a una comprensione di quanto gli sta accadendo, costruire rappresentazioni più adeguate di ciò che sta affrontando, modificare se necessario le prospettive e i punti vista, rivedere gli obiettivi e/o elaborare nuove strategie per raggiungerli. L’alternativa è rischiare lo stallo nel percorso evolutivo, sperimentando una crisi a cui non si riesce a dare significato o una valenza di crescita.
L’esperienza di apprendimento, da questo punto di vista, risulta essenzialmente interconnessa con il processo di sviluppo e di costruzione del Sé, con una sollecitazione continua nel tempo a ridefinire confini e caratteristiche.
In contrasto con queste considerazioni, moltissimi individui continuano a pensare alla propria identità come qualcosa di strutturale ed originario, scisso dalle esperienze che hanno vissuto e indipendente dal contesto in cui si trovano immersi. È una visione statica che non contempla le interconnessioni, le influenze reciproche, le dinamiche emotive, affettive, relazionali, i cambiamenti lungo le fasi della vita etc. Nella ricerca di essere sé stessi l’accento è posto sulle caratteristiche distintive, sulle qualità specifiche, sulle predisposizioni e sulle inclinazioni naturali: conoscere questi aspetti di sé renderebbe più forti, consentirebbe di raggiungere maggiori livelli di soddisfazione e di realizzazione, ridurrebbe il rischio di sperimentare fallimenti e, nel caso, minimizzerebbe i tempi di ripresa. Il più grande limite di queste considerazioni è determinato, oltreché dalla staticità, dalla linearità della prospettiva che lascia gli individui isolati nelle proprie caratteristiche naturali, più o meno positive, e in balia di problematiche percepite sempre come altro da sé.
Di fatto, sottolineare la natura essenzialmente dinamica del processo di definizione di sé consentirebbe di sfruttare gli aspetti trasformativi delle esperienze a cui siamo esposti; divenire consapevoli che il cambiamento è un aspetto fondamentale dell’assetto identitario permetterebbe di cogliere e sfruttare il movimento dialettico tra condizioni esterne e spinte interne (desideri, motivazioni etc.). Anche la ricerca di autenticità (che ancora per troppi individui assume le caratteristiche di un disvelamento di qualcosa di originario) si trasforma in impegno a trovare una coerenza di movimento, in consapevolezza delle proprie scelte, in riflessività e responsabilità.
Per raggiungere questi obiettivi è necessario però allenamento e sperimentazione; imparare a gestire la complessità, se richiede un atteggiamento flessibile e consapevole nelle esperienze di apprendimento, necessita di un insegnamento altrettanto flessibile e in movimento. Ritorna l’importanza del lavoro sulla diversità, sin dai primi anni di scuola: più spesso nei progetti sulla diversità ci si concentra sulle principali forme di emarginazione quali razza, classe, genere e orientamento sessuale; meno frequentemente si lavora sui diversi background, sulle esperienze pregresse, sui molteplici contesti culturali e sulle innumerevoli possibili visioni del mondo; ancor meno diffuso è un insegnamento che allena al ragionamento, all’analisi, alla riflessione e alla ricerca di soluzioni, esplicitando che non esiste una strategia migliore in assoluto, una modalità di pensiero preferibile, un punto di vista privilegiato. Gli esercizi sul pensiero creativo e divergente sono, ad esempio, ancora poco utilizzati; il gruppo classe rischia di essere ridotto a semplice somma di un certo numero di individui, senza riuscire a sfruttare la dimensione della molteplicità di prospettive e di risorse, dimensione che allenerebbe al confronto e al dialogo, all’analisi delle differenze e delle sinergie possibili; le competenze narrative andrebbero allo stesso tempo implementate, per riuscire a saldare l’esperienza del nuovo con la percezione di sé stabile e coerente.