Il Novecento è stato attraversato da due guerre mondiali e da decisivi cambiamenti sistemici. Un “secolo breve”, capace insieme di distruzione ma anche di creazione e d’innovazione. Per capire quanti e quali cambiamenti hanno stravolto e riconfigurato la società e l’economia, è necessario riavvolgere il nastro della storia, estraendone quelle istantanee che ci danno a vedere l’economia e in particolare il sistema industriale.
L’Italia all’inizio del secolo scorso era un paese con un’economia prevalentemente agricola, soprattutto se paragonato agli altri stati europei come la Germania o la Francia e la Gran Bretagna. Un impulso decisivo al cambiamento avviene con la Prima guerra mondiale. L’industria italiana entra nel conflitto già vedendone delle occasioni di “arricchimento”: non a caso, nella disputa che ha preceduto l’ingresso dell’Italia in guerra, parte degli industriali si schierò dalla parte degli interventisti. Nel periodo bellico, infatti, la completa riconversione produttiva delle imprese alle esigenze belliche del paese – possibile attraverso l’aiuto anche economico dello Stato – e l’ingresso degli imprenditori nella scena politica del paese hanno fatto si che la fine delle guerra coincidesse anche con un nuovo inizio per l’impresa italiana.
Sono gli anni in cui cresce l’Ansaldo, la Fiat e l’Ilva, solo per citare alcune imprese. Tuttavia, nonostante i grandi passi in avanti, l’Italia non diventa un’economia industriale matura, complice anche la situazione politica e sociale del paese, con picchi di povertà soprattutto al sud molto elevati. Un dato interessante che fotografa la situazione di quel tempo emerge dal primo censimento italiano: sino almeno al 1951, esisteva una cospicua fetta di popolazione che lavorava come bracciante a giornata, attraverso la chiamata del caporale (situazione peraltro ancora attuale per molti migranti che approdano oggi in Italia). Inoltre, per un’affermazione piena e significativa dei diritti dei lavoratori, ma anche per una maggiore crescita del sistema industriale del paese, si dovrà aspettare altri 30 anni. È solo negli anni ’80 che l’Italia raggiunge tassi di produttività del lavoro tali da renderla competitiva con altri grandi paesi industrializzati. Una situazione destinata a mutare nell’arco di un decennio: già negli anni ‘90, infatti, l’Italia sembra non reggere il confronto con le altre economie.
Questo, in particolare, perché non ha saputo favorire la creazione di un sistema-paese che sappia accogliere e massimizzare l’innovazione, soprattutto tecnologica. Nel termine innovazione sono implicite la lungimiranza e la pazienza di guardare ai risultati nel lungo periodo, anche sacrificando quelli del breve tempo. Ma soprattutto nel termine innovazione è implicita e imprescindibile l’assunzione del rischio tipica di quegli imprenditori disposti a mettere in gioco il proprio lavoro, la propria fortuna, la propria reputazione.
L’impeditore, nella definizione che ne diede Schumpeter, è un innovatore che scardina l’esistente: combinando in modo nuovo le risorse e allestendo nuove funzioni produttive, l’imprenditore costituisce il vero fattore dinamico dell’economia.
Al netto delle critiche rivolte a Schumpeter per la troppa enfasi attribuita alla figura dell’imprenditore individuale, vale la pena di chiedersi se l’Italia di oggi e la sua “economia leggera” (secondo la definizione proposta da Bonomi domenica scorsa), siano in grado di mettere in campo quell’azione creativa e non adattiva in grado di portarci fuori della “distruzione creatrice” della crisi, sempre per citare Schumpeter, e oltre i ritardi del 900.
Erika Munno
Ricercatrice del percorso Nuovi confini tra impresa e lavoro del progetto Spazio Lavoro
Approfondimenti
Per un’introduzione ai temi del percorso Nuovi confini tra impresa e lavoro, guarda l’intervento del Professor Alessandro Pansa, tenuto il 25 settembre 2014 a Palazzo Liberty, durante l’incontro inaugurale di Spazio Lavoro: