Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Articolo del Laboratorio Dire la verità – riflessione pubblica su libertà di parola, libertà e potere 


Nell’epoca della post-verità e delle fake-news – ma anche della fake science, della fake history o dei fake like (generati dai bot sui social media) – chi dice la verità? E quale posto occupa la verità in relazione a un potere che sempre più appare impegnato non tanto a occultare o manipolare la verità, ma più semplicemente a trascurarla, collocandosi in una dimensione post-fattuale?

Nel solco della riflessione aperta da Hannah Arendt, si può osservare come la relazione tra verità e potere sia da sempre una relazione controversa e conflittuale, quasi che la verità sia strutturalmente condannata all’impotenza e il potere alla menzogna.

Quello della verità in politica è un problema cruciale, dalle implicazioni profonde e potenzialmente smisurate. Basti pensare all’antica e mai risolta disputa su cosa sia la verità: un enunciato vero; i fatti rilevanti; la corretta interpretazione dei fatti; l’attribuzione del valore di verità a proposizioni morali; e così via.

Per noi può essere interessante approcciare la questione partendo dalla prospettiva di chi dice la verità: ponendosi dal punto di vista dei soggetti che si fanno promotori di una pratica di “veridizione”, di atti di parola che mettono in gioco colui o colei che li pronuncia.

Come scrive Giorgio Agamben:

Nella nostra cultura esistono due modelli di esperienza della parola. Il primo modello è di tipo assertivo: due più due fa quattro, i corpi cadono secondo la legge di gravità. Questo genere di proposizioni sono caratterizzate dal fatto che rimandano sempre a un valore di verità oggettivo, alla coppia vero-falso. E sono sottoponibili a verifica grazie a un’adeguazione tra parole e fatti, mentre il soggetto che le pronuncia è indifferente all’esito. Esiste però un altro immenso ambito di parole del quale sembriamo esserci dimenticati, che rimanda per usare, per usare l’intuizione di Foucault, all’idea di “veridizione”. Lì valgono altri criteri, che non rispondono alla separazione secca tra il vero e il falso. Lì il soggetto che pronuncia una data parola si mette in gioco in ciò che dice. Meglio ancora, il valore di verità è inseparabile dal suo personale coinvolgimento.

Il rimando all’intuizione foucaultiana e alle sue ricerche sulla nozione antica di parresia – interessante per il nodo che stringe tra libertà, verità e soggettività – può essere utile per approcciare la discussione dal punto di vista del “parresiasta”: di colui che si assume la responsabilità di dire la verità, sfidando il potere, prendendosi un rischio. Un atto di veridizione – quello del parresiasta – che non coincide con un giudizio assertivo sul reale, ma con la scelta di legare se stessi a un certo atto di parola. Un atto che appare credibile se è in primo luogo propensione all’autocritica, esercizio del dubbio, descrizione laica di sé e del mondo.

C’è una componente di coraggio, in quest’atto di parola che non è semplice libertà d’espressione, ma – più profondamente – predisposizione a interrogare il reale e a lasciarsi da esso interrogare. Un’assunzione risoluta di rischio che è insieme ammissione della finitezza di ogni punto di vista, ma insieme senso di responsabilità: disponibilità a sostenere il proprio atto di parola, anche se urta le semplificazioni del senso comune o si scontra con le intemperanze del potere. È interessante che la parola tedesca per dire “schiettezza” sia Freimütigkeit, dove troviamo la parola Müt che significa coraggio. Coraggio cui fa appello Kant con il motto “Sapere aude!”, che condensa il senso più radicale dell’Illuminismo: abbi il coraggio di sapere e di pensare con il tuo intelletto. Guadagnati la tua autonomia conoscendo e dicendo il mondo per come esso si mostra, non per come una qualche autorità politica, culturale o religiosa lo rappresenta.

Resta da capire quale spazio vi sia oggi per pratiche di parola e di verità che richiedono tempi e modi che contrastano con l’attuale rimozione della complessità, con la lettura spregiudicata e spesso propagandistica dei fatti, con il sospetto che grava sui professionisti dell’informazione e con la generale delegittimazione che colpisce esperti e intellettuali.

In un’epoca in cui l’emozione e le paure hanno sostituito l’argomentazione razionale, chi si oppone alla disinformazione deliberata? Chi reagisce alla semplificazione di un mondo basato sull’accelerazione attraverso il racconto meticoloso e attento della realtà? Chi si prende il disturbo di esercitare la propria libertà di parola per sfidare conformismi e rassegnazione, le violenze e le indifferenze dei dispositivi di potere? Chi usa l’indagine e la critica per portare a emersione i rimossi o per sottrarsi a forme di governo oppressive e coercitive?

Non si tratta solo della libertà di espressione o della libertà di stampa come diritto e dovere a informare, ma anche di intendere l’esercizio della verità come una pratica di cittadinanza: una pratica capace di formare cittadini liberi, responsabili, che intrattengono un rapporto con se stessi e con la società attraverso la messa in gioco della propria capacità di critica e autocritica.

Al tempo della bubble democracy, delle solitudini connesse, del proliferare di mondi personalizzati in cui ciascuno crede a ciò che conferma i propri pregiudizi, crediamo che il ruolo della cultura, dell’informazione, della ricerca sia quello di dispiegare analisi accurate, ragionamenti complessi, ricostruzioni scrupolose e documentate per fare della verità un terreno di certo conflittuale ma nondimeno comune.

 

 

 

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