Articolo del Laboratorio Dire la verità – riflessione pubblica su libertà di parola, libertà e potere
Da molti anni mi occupo di migrazioni, frontiere e diritti umani come ricercatrice, operatrice socio-legale, coordinatrice di progetti sul territorio siciliano.
Quando ho iniziato a prendere parola su questi temi non eravamo in tanti a farlo, ma continuavamo a ripetere che, come diceva Abdelmalek Sayad (2002: 370), “riflettere sull’immigrazione in fondo significa interrogare lo Stato, i suoi fondamenti, i suoi meccanismi interni di strutturazione e di funzionamento”.
Avendo da sempre avuto questa consapevolezza, è spiazzante solo fino a un certo punto ritrovarsi adesso in un’epoca in cui le migrazioni sono diventate il centro del dibattito pubblico italiano ed europeo, il principale tema di propaganda di tutti i governi, il maggiore fattore di divisione delle popolazioni.
Ciò che è spiazzante, invece, è che proprio chi saprebbe parlarne con competenza e serietà fatichi così tanto a fare ascoltare la propria voce, mentre nello spazio comunicativo si affermino principalmente informazioni false, grossolane, fuorvianti, racchiuse in brevi slogan accettati acriticamente “per inerzia o per rispetto o per timore”, e con tanta forza da resistere “ad ogni confutazione razionale” (Bobbio, 1998: 107).
la “fabbrica della paura” (Ferrajoli 2013: 31) funziona oggi a pieno regime, e ha potenzialità assolutamente inedite, grazie alla velocità e alla pervasività dei nuovi media, e alla “disabitudine” delle persone alla ricezione di messaggi complessi: bastano pochi tweet o qualche post su facebook con parole d’ordine tanto immediate quanto banali, un video su youtube che diventa virale, per costruire una percezione della sicurezza, e soprattutto dell’insicurezza, tanto convincente quanto distante dalle ragioni reali della precarietà e dei disagi vissuti dalle popolazioni, ma capace, nonostante ciò, di assalire “le istituzioni conducendo a provvedimenti e scelte sia a livello micro sia a livello macro che fanno regredire la politica democratica e inclusiva” (Casadei 2016: 9).
In questo contesto, qualche mese fa, ho scelto di fare parte di una straordinaria avventura collettiva che abbiamo chiamato Mediterranea Saving Humans. Mediterranea è una piattaforma della società civile italiana che ha messo in mare una nave con l’obiettivo di monitorare e denunciare le violazioni dei diritti umani nel Mediterraneo non sottraendosi mai, laddove necessario, al dovere legale ed etico di salvare le vite in pericolo. L’avvio della prima missione, il 4 ottobre del 2018, avveniva in un momento in cui il Mediterraneo era stato trasformato in un deserto, oltre che in un cimitero, allontanando, tramite “codici di condotta” e forme di criminalizzazione di vario tipo, le navi delle Organizzazioni non governative che avevano salvato negli anni precedenti centinaia di migliaia di persone.
Nella conferenza stampa in cui annunciavamo il varo della prima nave battente bandiera italiana, la nostra Mare Jonio, abbiamo definito Mediterranea come “un’azione non governativa di obbedienza civile” di fronte all’agire di istituzioni che invece hanno eretto la violazione del diritto internazionale, del diritto del mare e del diritto dei diritti umani a sistema di governo.
La nave Mare Jonio impegnata nell’operazione Mediterranea
Un’azione che vuole porre ostacoli alla costruzione quotidiana di una frontiera liquida le cui regole vengono costruite, contro il diritto, dai giochi di forza tra i poteri europei agiti letteralmente sulla pelle delle persone (come accaduto nei casi vergognosi delle decine di naufraghi di recente trattenuti per settimane a bordo della nave Sea-Watch III, davanti le coste maltesi e solo un mese dopo davanti a quelle di Siracusa, in entrambi i casi a seguito di un divieto illegittimo di sbarco).
Un’azione per riprendere voce “concretamente facendo”, dal centro del Mediterraneo dove si gioca il futuro dell’Europa, ponendosi, anche fisicamente, al di fuori della dicotomia tra gli Stati di Visegrad e quelli della Troika, dimostrando che esiste ancora un’alternativa, una terza via per non restare schiacciati da questo conflitto che non ci rappresenta.
Ci siamo ritrovati ogni giorno, da una posizione particolare, a “dire la verità” esponendo i nostri corpi.
Dire la verità sul perché le persone siano costrette ad attraversare le frontiere a rischio della vita in assenza di ogni canale di ingresso legale; sul perché le politiche europee siano le migliori alleate proprio di quei trafficanti che tali politiche hanno ipocritamente eretto a unico obiettivo da colpire, strumentalizzando il linguaggio umanitario del “prevenire le morti in mare”; sul perché le persone anneghino, quando le segnalazioni dei naufragi non vengono più diramate dai centri di coordinamento marittimo, o vengono diramate solo nel momento in cui le imbarcazioni in distress sono uscite dalla zona Sar del paese in questione, e quel paese quindi può non assumere la responsabilità del loro salvataggio; sul perché le zone Sar, nate come strumenti per garantire la migliore efficacia nelle operazioni di ricerca e soccorso, siano nei fatti diventate frontiere d’acqua che producono morte; sul perché la Libia non sia un porto sicuro e non possa legittimamente avere una “guardia costiera” che catturi chi riesce a fuggire dai suoi campi di detenzione per riportarlo indietro all’inferno, mentre fermare le partenze dalle coste libiche non significa altro che lasciare morire bambini, uomini e donne solo un po’ più lontano dai nostri occhi.
Dire la verità, soprattutto, sulle conseguenze della normalizzazione della morte, e della colpevolizzazione del salvataggio, anche sulle vite di chi non è per mare, di chi non emigra, di chi si ritiene al sicuro “a casa propria” (Zagrebelsky 2017: 65 e ss.). “Siamo dove non vorremmo mai essere, dove nessuno dovrebbe mai ritrovarsi ad essere “sommerso o salvato”, abbiamo ripetuto, “per salvare innanzitutto noi stessi”. Perché dovrebbe fare paura, indistintamente, un potere che abbatte i limiti costruiti al “tutto è possibile” (Arendt [1948] 2004: 603) degli orrori dei nazifascismi dalle Costituzioni e dal diritto internazionale; perché dovrebbe fare paura, indistintamente, una società che accetta il gioco dei diritti a somma zero – toglierli a qualcuno per averli io – quando i diritti sono un orizzonte di rivendicazione che continua ad essere intellegibile solo in forza della sua universalità.
Queste verità, da ovunque le si dica, non sono semplici da affermare adesso. Abbiamo scelto di andare in quel mare, il nostro mare, per provarci. Con questo spirito stiamo continuando a navigare.
Bibliografia
Arendt, Hannah, [1948] 2004. Le origini del totalitarismo. Torino: Einaudi.
Bobbio, Norberto, 1998. Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano: Pratiche Editrice.
Casadei, Thomas, 2017. Il rovescio dei diritti umani. Razza, discriminazione, schiavitù. Roma: DeriveApprodi.
Ferrajoli, Luigi, 2013. Dei diritti e delle garanzie. Conversazione con Mauro Barberis. Bologna: Il Mulino.
Sayad, Abdelmalek, [1999] 2002. La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato. Milano: Raffaello Cortina editore.
Zagrebelsky, Gustavo, 2017. Diritti per forza. Torino: Einaudi.