Direttore dell'Osservatorio Sociale Mitteleuropeo (OSME)

Calendario civile \ Oltre le fratture d’Europa. Willy Brandt a Varsavia


Le situazioni conflittuali e le incomprensioni all’interno dell’Ue sottolineano grandi difficoltà di interlocuzione fra i vari paesi che partecipano, magari a diverso titolo, a questo faticoso percorso europeo. Particolarmente vistoso è risultato lo strappo avvenuto nella parte centro-orientale del Vecchio Continente, protagonisti i quattro paesi di Visegrád (V4, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia). Uno strappo recente che sa di voglia di riscatto storico della periferia geografica dell’Ue rispetto al suo centro che ha sede decisionale, operativa e simbolica a Bruxelles. Lo spunto è stato dato dall’emergenza migranti del 2015 che ha visto il V4 ritrovare slancio e coesione almeno rispetto a certi temi, dopo un lungo periodo vissuto in ombra, e compattarsi su un fronte anti-immigrazione unito nella critica alle politiche Ue in tale ambito.

Il rifiuto dell’approccio comunitario al tema dei flussi migratori verso l’Europa è stato affermato dai governi dei Quattro ma è espressione del punto di vista di parti certo non inconsistenti delle popolazioni di quei paesi. Uno dei motivi principi di tale posizione è che questi flussi sono il risultato della politica coloniale di alcuni stati europei in particolare, che col tempo ha solo cambiato forma. È opinione diffusa, all’interno del V4, che il costo di questa politica vada sostenuto dai responsabili della medesima, da coloro i quali l’hanno perseguita e continuano a farlo, oggi, con mezzi capaci di forti pressioni economiche. Da lì anche il rifiuto del principio che vincola l’erogazione dei fondi Ue alla condizione di ospitare migranti e profughi senza sentire preventivamente il parere dei parlamenti nazionali e delle popolazioni interessate. I leader nazionalisti del V4 respingono questo meccanismo, vi vedono un’imposizione dell’Ue, ne fanno una questione di sovranità nazionale.

Questa presa di posizione è solo uno degli aspetti che mettono in luce un diverso modo di intendere la costruzione di un’unità europea. Per il primo ministro ungherese Viktor Orbán il modello federalista è fallito prima ancora di nascere, a suo avviso il futuro dell’Europa può essere garantito da un sistema di stati concepito su basi nazionali. In esso troverebbero posto entità statuali libere da ingerenze esterne, perfettamente sovrane e capaci di conservare ciascuna la propria identità. Un patrimonio, quest’ultimo che, secondo gli spiriti nazionalisti, è oggi minacciato dal liberalismo imperante a Bruxelles, laddove per liberalismo si intende, nell’ottica del governo ungherese e dei suoi sostenitori, una tendenza che non contempla la difesa di interessi nazionali.

È lecito chiedersi se, negli anni ’90, al tempo in cui la Commissione europea esaminava le candidature dei paesi che un tempo stavano al di là della Cortina di Ferro, non sia stata sottovalutata, o per lo meno non considerata abbastanza, tutta una serie di differenze culturali, di mentalità e di esperienze storiche. Differenze dovute, nel caso dei popoli del V4 a una particolare percezione della storia, specie quella moderna e contemporanea, e a una memoria storica tramandata di generazione in generazione e non priva di un certo risentimento nei confronti di un Occidente considerato lontano e ingrato. Ingrato e insensibile alle tragedie nazionali vissute da paesi centro-orientali che in determinati momenti sarebbero stati fagocitati da potenze di ben altra entità, o abbandonati al loro triste destino: gli esempi facenti parte di queste memorie raccontate dagli interessati con amarezza vanno dalla spartizione della Polonia al Trianon, passando per l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe di Hitler e per l’autunno ungherese del 1956. Il tutto di fronte a un’Europa vista come estranea, insensibile e/o corresponsabile di queste sofferenze.

Nei paesi del V4, a livello di opinione pubblica, l’adesione all’Ue è stata accompagnata da un favore prevalente caratterizzato dall’interesse dei più giovani per la possibilità di studiare all’estero e di viaggiare con maggior facilità. L’impressione era, però, che sfuggisse l’essenza di questo progetto politico. Vi era, comunque, forse soprattutto da parte dei meno giovani, il sentore di fondo che non si potesse fare diversamente e che si stesse entrando a far parte dell’Ue come paesi di seconda categoria e potenziali colonie di un Occidente ricco proveniente da ben altre vicende storiche.

 

D’altra parte si manifestavano i segni dell’orgoglio di comunità che percepivano l’adesione all’Ue come un diritto, in quanto appartenenti a paesi culturalmente europei, capaci a lungo di contributi diretti e rilevanti alla cultura europea, separati da tale contesto dai circa quattro decenni vissuti nell’area di influenza dell’URSS. Un orgoglio frustrato, però, per certi complessi di inferiorità – in termini per lo più economici e di capacità di influenza esterna – che si sarebbero trasformati in voglia di riscatto storico andando ad incidere sui rapporti con l’Ue occidentale e con Bruxelles. Ecco lo scontro tra la periferia e il centro dell’Ue.

Oggi i paesi del V4 denunciano le iniquità di trattamento nei loro confronti come nel caso delle cifre del Recovery Fund basate su un criterio che secondo Orbán privilegia gli stati membri più ricchi a svantaggio di quelli meno abbienti.

L’Ungheria e la Polonia hanno posto il loro veto al bilancio Ue per i prossimi sette anni. Hanno respinto la condizionalità del rispetto dello Stato di diritto, che per il primo ministro di Budapest si basa su un meccanismo ricattatorio ed è un atto politico piuttosto che giuridico, gli dà manforte il suo omologo polacco, Morawiecki, secondo il quale questa condizione è una trovata arbitraria per colpire Varsavia e un pericolo per l’unità europea. I più accesi sostenitori di Orbán vedono nel loro premier l’uomo che ha restituito dignità al paese e che, in nome del medesimo, ha avuto il coraggio di affrontare l’Ue e di indicare agli altri stati membri un percorso di autodeterminazione nel segno di un’identità europea che per il leader danubiano è inequivocabilmente cristiana e legata ai valori patri. Tutti aspetti contestati dall’opposizione ungherese partitica e sociale.

È lo stesso Orbán che evidenzia la differenza fra l’Europa occidentale e quella centro-orientale: due soggetti provenienti, sottolinea, da esperienze storiche differenti le quali hanno forgiato mentalità diverse e determinato diverse visioni del mondo, diversi valori di riferimento non necessariamente legati, ad esempio, a quell’antifascismo che avrebbe funzione di collante nelle società occidentali.

Insieme a quanti si collocano entro il suo orizzonte politico-culturale, respinge il cosmopolitismo, così estraneo ai popoli del centro-est, il falso mito del multiculturalismo fuorviante e foriero di gravi conseguenze, come il terrorismo di matrice islamica. “Non vogliamo una società multiculturale – ha ribadito di recente – l’Europa centro-orientale saprà difendere i valori cristiani e nazionali”. Valori che, visti in questo modo, non cercano un contatto e relativo confronto proficuo fra identità diverse, ma la loro contrapposizione e il rifiuto della convivenza con entità altre. Per l’uomo forte d’Ungheria solo quando l’Europa occidentale rinuncerà a voler imporre a quella centro-orientale le sue prassi politiche, i suoi valori e il suo liberalismo che, per i cosiddetti sovranisti è una tendenza ormai al tramonto, vi sarà pace fra le parti.

Il cammino verso la fine delle recriminazioni storiche e l’individuazione di valori comuni appare ancora lungo.

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