La pandemia di Covid-19 ha modificato improvvisamente e radicalmente, da fine febbraio 2020, le pratiche quotidiane del “fare scuola” in Italia e le loro rappresentazioni culturali.
I docenti sono passati, nell’arco di poche settimane, dalla lezione in presenza a quella digitale, i luoghi e i tempi dell’apprendimento e della socializzazione scolastica delle studentesse e degli studenti sono stati sostituiti da aule virtuali, la professione di docente è stata investita dalla richiesta improvvisa di nuove competenze e di nuove, inaspettate, responsabilità. Lo spazio del vivere quotidiano e lo spazio dell’apprendimento, i tempi ricreativi e i tempi del lavoro si sono confusi; la voce della scuola è uscita dallo spazio protetto, quasi sacro dell’aula, ed è entrata nelle case, raggiungendo oltre agli studenti e alle studentesse anche pubblici nuovi e non prevedibili – la mamma, il nonno, il fratellino, il gatto – che hanno reso lo spazio educativo uno spazio ibrido e radicalmente diverso da quello tradizionale. Per sintetizzare questi cambiamenti è stata coniata in Italia una nuova espressione “didattica a distanza” (dad).
Il ricorso obbligato alle modalità digitali di erogazione delle conoscenze ha comportato una messa in discussione profonda – più o meno esplicita e consapevole nei diversi attori sociali e nei diversi contesti – di ciò che fa di una relazione una relazione formativa. Tutti gli attori coinvolti – dirigenti, genitori, studenti, insegnanti, personale amministrativo – sono stati sollecitati improvvisamente a integrare nuove abitudini e nuove strategie comunicative. Nell’aula virtuale cambia radicalmente il problema della gestione dell’aula e del controllo dei corpi: le asimmetrie di potere tra docenti e studenti sono sottoposte a nuove sollecitazioni dal momento che la distanza fisica dà nuovo potere agli studenti e contribuisce a indebolire quello assunto dai docenti. Il digitale, inoltre, ridefinisce, oltre ai contenuti, anche le relazioni, le responsabilità educative così come i conflitti tra ruoli che assumono forme inattese.
La didattica digitale, prima osannata nella primavera 2020 come la soluzione di tutti i problemi (a colpi di slogan “la scuola non si ferma”) è ora, nell’autunno 2020, demonizzata come la causa di tutti i mali e additata come impersonale, poco inclusiva, avvilente e inefficace. L’arena mediatica e quella politica si stanno dividendo nella sterile contrapposizione tra fautori e detrattori, apocalittici e integrati. Anziché cadere nella trappola della contrapposizione ideologica è più interessante avviare, in prospettiva antropologica, una riflessività critica rispetto a tre ambiti:
- la didattica digitale interroga i fondamenti antropologici della relazione educativa, sollecitandoci ad una riflessione approfondita sul genere di spazio educativo che si crea nella trasmissione del sapere attraverso una particolare forma di mediazione, quella digitale: si può essere docenti senza essere fisicamente presenti in un’aula e, se sì, in che modo? Si può apprendere come studenti senza “esser-ci” e senza uno spazio fisico appositamente dedicato agli apprendimenti e alla relazione educativa e, se sì, come?
- il legame tra didattica a distanza ed “emergenza” va interpretato in senso etimologico: la didattica digitale ha fatto emergere alcuni problemi latenti nella scuola italiana da decenni; li ha esplicitati, resi evidenti, in alcuni casi fatti esplodere. I problemi della valutazione, dell’inclusione degli allievi migranti e con bisogni educativi speciali, della gestione dell’aula e della relazione con le famiglie, così come della responsabilizzazione degli studenti rispetto ai loro apprendimenti, sono problemi che non sono causati dalla didattica a distanza ma sono, invece, portati alla luce, resi evidenti, dalla didattica a distanza. Essa ci consente di rileggere, per contrasto, le pratiche educative in presenza e la problematicità dei contesti in cui si collocano, offrendoci un’opportunità di riflessività straordinaria e inedita;
- l’espressione didattica a distanza, rispetto all’equivalente inglese “e-learning”, sottolinea i limiti di questa didattica rispetto a quella tradizionale. La didattica “a distanza” non è rappresentata come una didattica multimediale, interattiva, convergente, cioè come una didattica che si basa e sfrutta le potenzialità strutturali dei nuovi media (un e-learning appunto); è piuttosto pensata come una didattica a cui manca un aspetto fondamentale, la presenza fisica in aula dei docenti e degli studenti.
L’espressione “didattica a distanza” rischia di farci scivolare nella retorica dell’aula, una retorica che guarda con nostalgia al passato, come se il ritorno al passato fosse oggi un traguardo da raggiungere. Si desidera tornare in aula “come prima”, il prima possibile. L’emergenza e la paura stanno facendo dimenticare che “la scuola come era prima” non funzionava e non deve essere la meta a cui tendere. Piuttosto, siamo oggi in una situazione che ci prospetta una grande opportunità di rinnovamento nel modo di fare scuola e di pensare la responsabilità educativa e i contesti talvolta difficili e sempre eterogenei nei quali essa si esercita. È quindi più che mai indispensabile che anziché parlare il linguaggio dell’emergenza (e dell’auspicato ritorno alla normalità) e rifugiarsi nella retorica della relazione umana in presenza (quale è stata, sinceramente, la qualità di questa relazione nelle nostre aule negli ultimi anni?), i docenti abbiano la capacità e il coraggio di ripensare il loro modo di stare in aula, reale o virtuale che esse siano. Come mi ha detto una giovane docente di un istituto professionale di Brescia al termine di un’intervista profondità, “Se la didattica in presenza resterà quella che abbiamo fatto fino ad ora e niente cambierà, niente abbiamo imparato, allora tutto questo non è servito a nulla”.