“Democrazia partecipativa” e “democrazia deliberativa” vengono spesso evocate come possibili “modelli” o ideali di democrazia che possono offrire una qualche risposta credibile ai fenomeni che, generalmente, vengono riassunti sotto il termine “crisi” della democrazia: in particolare, l’alto livello di sfiducia, distacco e risentimento che molti cittadini manifestano. Ma questi due “modelli” possono realmente offrire delle ricette utili? E in che modo? E, innanzitutto, cosa si intende esattamente con gli aggettivi “partecipativa” e “deliberativa”? Alcune brevi definizioni preliminari sono necessarie, partendo però dal presupposto che non sono modelli alternativi alla democrazia rappresentativa. Tutt’altro.
Il termine “democrazia partecipativa” nasce nel fuoco delle lotte giovanili degli anni Sessanta negli Stati Uniti, poi si eclissa, per rinascere alla fine degli anni Novanta, con i nuovi movimenti di critica della globalizzazione. Nel periodo a noi più vicino, tuttavia, il termine ha un po’ perso i tratti originari e oggi designa, in modo ampio ed anche talvolta piuttosto generico, un insieme molto variegato di procedure, istituti, metodologie che implicano un diretto coinvolgimento dei cittadini nei processi di costruzione di una decisione politica o amministrativa, e il loro esercizio di un qualche grado di potere e di influenza.
“Democrazia deliberativa” è altra cosa: è, prima di tutto, una corrente teorica del pensiero democratico contemporaneo. Dopo i primi contributi e le prime formulazioni di questa nozione, negli anni Ottanta, e poi con il contributo decisivo di Rawls e Habermas nei primi anni Novanta, la democrazia deliberativa è oggi oramai definibile come un campo molto vasto sia di elaborazioni teoriche che di sperimentazioni pratiche, segnato da una notevole pluralità di approcci e tuttavia fondato su alcune comuni assunzioni. Alla base dell’idea di democrazia deliberativa possiamo cogliere l’opposizione tra una visione aggregativa della democrazia (in base alla quale le “preferenze” degli individui possono essere solo “contate” e assunte come un dato esogeno) e una visione discorsiva, per la quale i giudizi politici dei cittadini si formano e si trasformano nel corso di un processo deliberativo pubblico, attraverso uno scambio argomentativo e nel dialogo con gli altri.
La democrazia deliberativa può essere definita come un modello ideale di democrazia; tuttavia, una definizione più completa ed efficace è quella che la assume come un paradigma critico-normativo, che può agire in una duplice direzione: come criterio valutativo e come criterio progettuale. Vale a dire: da una parte, permette di interpretare e valutare le forme, la qualità e la legittimità di tutte le procedure democratiche (guardando al loro grado di inclusività: una decisione è stata assunta veramente ascoltando e tenendo conto di tutte le opinioni e di tutti gli interessi in gioco? È stata accompagnata da una ricca e articolata discussione pubblica?); dall’altra parte, è un paradigma che permette di progettare specifici dispositivi di partecipazione democratica (“arene deliberative”, come vengono definite, che sono costruite al fine di promuovere e realizzare, nella misura del possibile, una deliberazione democratica pubblica e inclusiva, che risponda agli standard normativi definiti dalla teoria, e che sia fondata sullo scambio di argomenti e di “buone ragioni”, sulla ricerca di soluzioni condivise o di mediazione accettabili e giustificabili).
Sulla base di queste prime sommarie definizioni, possiamo provare a rispondere all’interrogativo iniziale. Ma, come dicevamo, bisogna liberare innanzitutto il campo da un equivoco ricorrente: Democrazia Partecipativa e Democrazia Deliberativa non sono forme alternative alla democrazia rappresentativa; piuttosto, sono modelli o idee che possono indicare alcune caratteristiche e segnare la maggiore o minore qualità della stessa democrazia rappresentativa. Viviamo comunque nell’orizzonte della democrazia rappresentativa, ma è evidente che ci sono, e possono esserci, modi diversi di concepirla e praticarla. A un estremo, troviamo una visione “minimalista”, impoverita e scheletrica, del circuito rappresentativo: una democrazia intesa come mera procedura di selezione elettorale delle élites chiamate a governare; o, al limite, una visione apertamente plebiscitaria, per la quale conta solo l’autorizzazione al comando affidata ad un leader. Al polo opposto, possiamo concepire una democrazia rappresentativa che, per così dire, rispetta al meglio le sue stesse premesse normative: una democrazia, cioè, in cui le procedure istituzionali che conducono a una decisione siano fondate su un ricco tessuto di partecipazione civica e di deliberazione pubblica; e in cui il carattere indiretto e mediato delle relazioni tra opinione e volontà politica non sia visto come un limite o un difetto, ma piuttosto come un suo elemento costitutivo. [1]
Una democrazia rappresentativa, dunque, può essere definita essa stessa come una democrazia “deliberativa”, nella misura in cui sia fondata su una costante circolarità comunicativa tra governanti e governati e su una ricca e articolata espressione dei discorso pubblico che accompagna e legittima la costruzione delle decisioni istituzionali.
Ecco quindi il contesto entro cui possiamo concepire il ruolo e la funzione dei nuovi modelli partecipativi, di ispirazione deliberativa (dai Deliberative Polling inventati da James Fishkin alle citizens juries, fino a tutte le numerose varianti di mini-publics): in una democrazia rappresentativa che rispetti quanto più possibile i suoi principi normativi, partecipazione e deliberazione si manifestano in forme libere e spontanee, all’interno di una sfera pubblica critica e di una società civile ben articolata, con le sue espressioni e organizzazioni. Ma partecipazione e deliberazione possono esprimersi anche attraverso specifici spazi e momenti, istituti e procedure – progettati ad hoc – che connettano in modo sistematico e strutturato i processi di formazione delle opinioni politiche e dei giudizi dei cittadini, da un lato, e le procedure istituzionali di formazione delle decisioni politiche e amministrative, dall’altro.
Possiamo riprendere l’immagine con cui Habermas illustrò la sua concezione del rapporto tra sfera pubblica e sfera istituzionale: la “chiusa idraulica”. Secondo Habermas, in uno stato democratico di diritto, e in una democrazia si approssimi alle sue stesse premesse normative, non è né possibile né desiderabile che le opinioni e I giudizi che si formano e si esprimono nella sfera pubblica possano essere trasposti immediatamente nella sfera istituzionale: è necessario un “filtro”, una “chiusa”, che permetta al magma delle opinioni di essere tradotto in decisioni legalmente vincolanti per tutti. Bene, rispetto alla visione “binaria” che proponeva Habermas, possiamo ora dire che il “flusso” che conduce dalle opinioni alla formazione di una volontà politica può essere anche incanalato attraverso una pluralità di istituti partecipativi e deliberativi che strutturano la sfera pubblica. In breve, possono esserci molte “chiuse”, “a monte”, per così dire, prima che si giunga alla “chiusa” decisiva, quella che introduce opinioni e giudizi nella procedure legittime di una decisione politica. Questi spazi di partecipazione e deliberazione, deve essere ben chiaro (contro ogni pretesa o illusione di democrazia “diretta”), non hanno, e non possono rivendicare, alcun diretto potere decisionale, ma non per questo sono irrilevanti: al contrario, possono giocare un ruolo decisivo come fattore di legittimazione (o criticamente, di de-legittimazione) delle decisioni assunte dalle istituzioni. È a partire da questa consapevolezza che possiamo concepire innovazioni e sperimentazioni democratiche cha arricchiscano il tessuto delle nostre democrazie rappresentative: ma qui si apre un altro capitolo del discorso, che rimandiamo ad un’altra occasione.[2]
[1] Cfr. N. Urbinati, Representative Democracy. Principles and genealogy, Chicago, University of Chicago Press, 2006; N. Urbinati, Democracy Disfigured: Opinion, Truth, and People, Harvard University Press, 2014.
[2] Questi nuovi modelli e questi nuovi istituti partecipativi e deliberativi sono realmente efficaci, e come si misura la loro efficacia? Quali insegnamenti possiamo trarre dalle esperienze di questi anni? Come si integrano nelle procedure di una democrazia rappresentativa? Sono alcuni dei temi che tratteremo nel nostro contributo all’Annale della Fondazione Feltrinelli, in corso di preparazione, dedicato appunto al Futuro della democrazia.