«Non esagero: avremmo 200 kilowatt di fotovoltaico da mettere a terra domani mattina. È tutto fatto, bisogna solo allacciarsi alla rete. Oggi, però, per questo passaggio ci vogliono anche sei o sette mesi: le sembra normale? Ci sarebbe il potenziale per portare dieci condomini a consumare come uno solo, ma la burocrazia ci devasta. Pensi ai benefici, non solo ambientali».
A parlare è Pietro Del Grosso, ingegnere meccanico alla Tecnozenith, piccola società che fornisce impianti energetici in provincia di Cuneo. Uno dietro l’altro, mette in fila i paletti e le lunghe attese necessarie a realizzare i progetti di autoconsumo collettivo condominiale, quelli basati sulle rinnovabili prodotte in un punto neutro di un palazzo (ad esempio il tetto) e condivise tra gli inquilini.
Quella per cui lavora Del Grosso è una delle tante aziende ingolfate nei meandri burocratici che più di ogni altro aspetto stanno rallentando l’ascesa delle energie pulite in Italia, mentre il Paese nel frattempo sta rispolverando un combustibile fossile come il gas per far fronte alla crisi energetica scatenata dalla guerra russa in Ucraina. Sarebbero più di 500, secondo un’analisi dell’Alleanza per il fotovoltaico, i progetti di energia verde bloccati dalla burocrazia e in attesa di un’autorizzazione da parte della Commissione governativa sulla Valutazione di impatto ambientale.
E tra questi ci sono decine e decine di iniziative di autoconsumo collettivo che, quando valicano i confini del singolo edificio, rientrano poi nella definizione di comunità energetica rinnovabile (Cer). In quest’ultimo caso, sono gli abitanti, non per forza tutti, di un quartiere o di un Comune che si mettono “in società” (creando un soggetto giuridico), si affidano a un fornitore e installano impianti rinnovabili in condivisione (spesso si tratta di pannelli fotovoltaici). Il risultato è la ripartizione dell’elettricità prodotta tra tutti gli aderenti, che possono beneficiare di incentivi statali e di risparmi in bolletta. Produzione, scambio e autoconsumo comunitario di energia non impattante sul Pianeta: una piccola rivoluzione dal basso per fermare il ritorno delle fonti fossili e attuare una transizione energetica sostenibile da ogni angolazione.
Un ritorno a 360 gradi sul territorio: i benefici sociali delle comunità energetiche
L’autoconsumo collettivo e le comunità energetiche sono i due principali pilastri della cosiddetta democrazia energetica: tutti contribuiscono alla causa e tutti – anche coloro che non aderiscono e non finanziano gli impianti – ne traggono beneficio. Quel “tutti” è fondamentale perché si rivolge alla cittadinanza intesa come collettività: progetti come questi sono potenzialmente in grado di mettere sulla mappa paesini isolati e quartieri periferici, di rafforzare legami sociali tra i cittadini e di avere un ritorno a 360 gradi sul territorio. I benefici non sono quindi solo ambientali ed economici, ma anche sociali: modelli a tripla convenienza che stimolano l’aggregazione sui territori ed educano i residenti a uno stile di vita più ecologico.
«Le persone sono entusiaste, si associano volentieri e si sentono riconosciute. Da noi hanno aderito tutti, a parte i residenti delle seconde case e gli stranieri che vengono qui di rado», racconta Laura Borsieri del Consorzio elettrico di Storo, in provincia di Trento, che ha in gestione la comunità energetica del borgo montano di Riccomassimo: la prima del Trentino. «La nostra comunità energetica rinnovabile fornirà energia a una trentina di soggetti. E i cittadini destineranno gli introiti degli incentivi del Gse (il Gestore dei servizi energetici presso il quale bisogna registrare la Cer, ndr) per reinvestire sul territorio, sistemare i sentieri montani, realizzare opere pubbliche, come un parco giochi, e diverse iniziative sociali».
Come funziona? «Tutte le case sono sotto la stessa cabina secondaria», risponde Borsieri. «E l’impianto fotovoltaico della comunità energetica, da 18 kilowatt di picco, è realizzato sulla copertura di un’ex scuola che l’amministrazione comunale ci ha messo a disposizione a comodato d’uso gratuito. Gli abitanti del borgo si sono messi insieme in un’associazione di promozione sociale».
I ritardi del decreto attuativo e la solita burocrazia “all’Italiana”
Quello di Riccomassimo è un esempio virtuoso ma isolato. Essendo un borgo di una cinquantina di abitanti, la comunità energetica riesce a creare vantaggi concreti nonostante i paletti imposti dalla sperimentazione.
L’attuale normativa impone infatti una potenza massima installata di 200 kilowatt a impianto. Il decreto milleproroghe del 2019 aveva avviato una fase di “test”, in attesa del decreto attuativo in grado di ampliare la potenza massima (consentirà di realizzare comunità energetiche fino a un megawatt e di incentivare i Comuni con 2,2 miliardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza), sbloccare i progetti pendenti e fornire ad aziende, cittadini ed enti pubblici informazioni fondamentali per procedere. Decreto attuativo atteso prima a inizio 2022, poi a giugno, poi subito dopo l’estate, ma che è stato chiuso solo nella seconda metà del mese di novembre del 2022 (quando scriviamo non è ancora stato pubblicato), tenendo così in scacco centinaia di iniziative potenzialmente preziosissime in piena crisi energetica.
«Siamo ancora in ambito sperimentale. È molto frustrante: è un anno che aspettiamo di operare liberamente. Abbiamo Comuni e cittadini che hanno la necessità di convertirsi a soluzioni di questo tipo anche per ammortizzare le bollette. Non è pensabile che uno Stato non risponda quando c’è realmente bisogno, mentre nel Nord Europa le comunità energetiche sono realtà da anni», dice Claudia Carani dell’Agenzia per lo sviluppo sostenibile (Aess), che supporta diversi Comuni nel processo di creazione e attivazione di una comunità energetica. Essendo dei soggetti giuridici, le comunità energetiche rinnovabili non possono nascere in un batter d’occhio: i cittadini che aderiscono devono creare un’associazione senza scopo di lucro, finanziare l’installazione dell’impianto (o affidarsi a un ente terzo, anche per la creazione di un piano di fattibilità) e iscriversi al portale del Gestore dei servizi energetici (Gse). E qui arrivano i problemi.
«Quando, nel giugno 2021, ho registrato la comunità energetica, il sito del Gse non era ancora finito. Sono riuscita a completare solo la prima parte, e ancora oggi non è al 100% delle sue funzionalità», confessa Laura Borsieri parlando della sua esperienza a Riccomassimo, in Trentino. Tra l’iscrizione nel portale del Gse e l’accettazione della richiesta di comunità energetica, passano almeno tre o quattro mesi. «Ma prima di arrivare lì, lei deve essere allacciato alla rete. Ed è un processo che richiede altri mesi», aggiunge Del Grosso.
Secondo un monitoraggio di Legambiente, aggiornato a fine ottobre 2022, solo 16 delle 44 comunità energetiche analizzate sono riuscite a completare l’iter di approvazione sul sito del Gse, mentre solamente tre realtà hanno ricevuto la prima tranche di incentivi statali.
«Il Gse ha delle linee guida che vanno a restringere l’operatività delle comunità energetiche rinnovabili. E oltre a loro entrano in gioco altri organi come l’Agenzia delle entrate, che stabilisce una serie di norme fiscali. Anche l’Autorità di regolazione per l’energia reti e ambiente (Arera, ndr) può normare sull’argomento», aggiunge Carani. «Ci sono troppi enti che possono definire ulteriori tasselli normativi: diventa una scatola cinese. Infatti la Commissione europea ha chiesto all’Italia di semplificare il processo».
Chi è già partito e chi scalpita: gli esempi di Bologna e Pinerolo
In Italia, le comunità energetiche rinnovabili mappate da Legambiente sono più di 100, ma quelle effettivamente operative – stando al portale Comunità rinnovabili – sono meno di 50. Il confronto con altri Stati nordeuropei non regge: già nel 2019, un report del Joint research centre della Commissione europea ne contava circa 1.750 in Germania, 700 in Danimarca, 500 nei Paesi Bassi.
L’Unione europea vuole arrivare a produrre il 20% dell’elettricità del continente grazie alle Cer. Secondo l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea), entro il 2050 saranno 264 milioni i cittadini Ue a unirsi al mercato energetico come prosumer (coloro che finanziano l’installazione dell’impianto di una comunità energetica), generando così fino al 45% dell’elettricità verde totale. La pubblicazione del decreto attuativo, con i conseguenti bandi regionali per ottenere i finanziamenti, può rappresentare per l’Italia il punto di svolta: basti pensare che, secondo l’assessora regionale alla transizione ecologica Roberta Lombardi, nel Lazio è stata superata quota 500 «adesioni complessive» raccolte online.
Potrebbero quindi rompersi le catene che tengono imbrigliati numerosi progetti, come quello che si baserà sull’installazione di un impianto fotovoltaico nella sede dell’Opera dell’immacolata onlus (Opimm) a Bologna. Qui il progetto prevede che l’energia prodotta verrà condivisa da circa settanta nuclei familiari dei quartieri bolognesi di Roveri e Pilastro.
«Ad aprile 2022 abbiamo dato la disponibilità ad avviare progetto: la nostra sede, con il suo grande tetto da 2.500 metri quadri, è fisicamente appetibile per ospitare l’impianto idoneo a raggiungere il Pilastro e soddisfare anche il nostro fabbisogno energetico», spiega Cira Solimene, direttrice della fondazione Opimm Onlus, che si è messa a disposizione per diventare il nucleo di un’iniziativa volta a ridurre la povertà energetica e le disuguaglianze nei due quartieri periferici bolognesi. «Poi tutto si è fermato, perché stiamo attendendo i decreti attuativi e la delibera regionale. Ci hanno ricontattato dopo l’estate per dirci che c’eravamo quasi, ma ancora nulla. Non abbiamo gli strumenti che ci consentono di procedere».
L’obiettivo è di «includere nella comunità energetica anche le scuole, le parrocchie, le aziende. Vogliamo creare aggregazione e un sentimento di partecipazione», aggiunge Solimene. «Ma, ripeto, non sappiamo ancora niente. Siamo anche disposti ad anticipare i costi, ma come e quando li recuperiamo? E come recluteremo i soggetti interessati?».
Chi invece è già partito è il palazzo di via Cittadella a Pinerolo, in provincia di Cuneo, uno dei primi condomìni italiani a produrre e consumare autonomamente la sua energia pulita. Agevolata dall’iter autorizzativo più snello dei singoli progetti di autoconsumo collettivo rispetto alle comunità energetiche, l’unità abitativa ha ora un impianto fotovoltaico da 20 kilowatt sul tetto, un sistema di isolamento termico sulla facciata e un pannello di controllo in ogni appartamento.
«Tutta l’energia prodotta è utilizzata per il funzionamento del condominio: dalla pompa di calore all’ascensore. La rimanenza che esce dal contatore viene ripartita fra i condòmini», racconta l’ingegnere Pietro Del Grosso. Nelle sue parole, c’è l’amarezza di chi si sente vincolato da una burocrazia e da una normativa che non gli permettono di ragionare in modo ambizioso. Con decine di iniziative autoconsumo collettivo che non riescono a “parlarsi” tra loro, nell’ottica di creare una grande comunità energetica nel cuneese.
«Vorremmo fare una enorme comunità energetica da migliaia di volt, ma i ritardi del decreto attuativo ci hanno recato diversi danni. Siamo fermi», dice Del Grosso. «I cittadini risparmiano tra i 50 e i 150 euro sulla corrente elettrica, vale a dire tra il 10 e il 30%». Un miraggio in un momento storico in cui le bollette hanno piegato i bilanci familiari di molti italiani.
L’importanza di non sottovalutare l’alfabetizzazione energetica
Di solito sono i giovani a aderire per primi ai progetti di autoconsumo collettivo. Il 20-30% dei condòmini dice di sì, ma gli altri preferiscono lasciar perdere. E spesso sono gli anziani a declinare. «Ma io sono sicuro che quando il Gestore dei servizi energetici inizierà a ridare i soldi indietro, molti altri residenti si connetteranno», scommette Del Grosso.
Cavilli burocratici, tempi biblici, incapacità di individuare il punto adatto dove costruire l’impianto e pratiche da firmare possono realmente disincentivare i cittadini. «Noi siamo dell’ambiente e ci sembra semplice. Ma chi non è del settore, come fa? A volte abbiamo avuto dei casi di non corrispondenza tra i dati forniti dai cittadini e il sistema informatico per la registrazione: mi metto nei panni di una persona normale che costituisce una Cer e so che può dominare il disorientamento», dice Laura Borsieri.
La semplificazione dell’iter è quindi una (o, forse, la) chiave per rendere queste soluzioni più appetibili e considerate. Prima ancora, però, bisogna informare e accompagnare i cittadini, perché il tema energetico è più delicato che mai. Su Facebook, nel gruppo “Comunità Energetiche Italia”, fioccano le domande di persone che non immaginano nemmeno di potersi agganciare a una comunità energetica semplicemente come consumer, dunque senza spendere nulla per finanziare l’impianto rinnovabile. E sul profilo del Comune di Storo, che ospita la frazione di Riccomassimo (dove c’è la Cer descritta precedentemente), un residente scrive: «Cosa sarebbe questa comunità energetica rinnovabile? Non credo sia gratis».
La confusione ancora è tanta. Commenti simili sono ordinaria amministrazione sotto i post social che annunciano la nascita di progetti del genere. Online, intanto, iniziano a sorgere corsi per diventare «animatori» di comunità energetiche, e ci sono alcune leggi regionali – come quella, virtuosa, dell’Emilia-Romagna – che sostengono economicamente la formazione e il rafforzamento delle competenze per la genesi di un piano di democrazia energetica. La spinta decisiva dovrebbe però arrivare dallo Stato.
L’“alfabetizzazione energetica” (energy litercay), attraverso un piano di comunicazione efficace, per funzionare dovrà toccare più aspetti, come spiega la rivista “Science”: l’installazione e l’uso dei dispositivi per le energie rinnovabili; i vari passaggi operativi; gli aspetti finanziari; l’impatto sociale oltre che ambientale. Solo in questo modo i cittadini possono cogliere l’impatto valoriale, sociale e ambientale di queste iniziative. Magari anche prima di quello economico.