Basterebbe che ogni italiano, in una di quelle domande rivolte alla propria coscienza che neppure il fascismo può impedirgli di porsi, si chiedesse di che razza è, da dove viene il colore dei suoi occhi o della sua pelle, perché l’«antica purezza del sangue» proclamata dal Ministro della Cultura popolare prenda un aspetto assurdo. Abitante di grandi porti che sono comunità viventi di tutte le genti, contadino di quelle campagne del sud da cui tanti sono partiti emigranti per il mondo per tornare africanizzati, americanizzati, europeizzati, abitante di quelle isole che sono state fecondate dalle più diverse civiltà e percorse dai pirati di tutte le coste, lavoratore di quel nord Italia che da tanti secoli è uno di quei centri in cui l’Europa si è riconosciuta nella sua multiforme varietà, tutti gli italiani portano in se stessi le tracce delle «razze» dei quattro punti cardinali.
Gianfranchi, La razza italiana o l’italiano allo specchio, «Giustizia e Libertà», 22 luglio 1938
Nel 1938 Giuseppe Di Vittorio scriveva sul giornale degli antifascisti italiani in Francia “La voce degli italiani” che «il delirio razzista» stava giungendo al «parossismo in Italia. Tutti i mezzi potentissimi di pressione morale e materiale di cui si è munito il regime, sono stati messi in azione per creare un’atmosfera di progrom». (si veda allegato “In aiuto degli ebrei italiani” del 7 settembre 1938)
Razzismo e antisemitismo hanno avuto un significato nazionale e un ruolo centrale nel rafforzamento del regime totalitario in Italia nella seconda metà degli anni Trenta.
Di fronte al lungo dibattito che ha circondato le origini e la natura del razzismo e dell’antisemitismo del fascismo italiano fin dall’immediato secondo dopoguerra, la storiografia ha stabilito la loro evoluzione autonoma rispetto a presunte pressioni dell’alleato tedesco e ha smantellato definitivamente la visione riduttiva dell’antisemitismo fascista (si veda M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi nuova ed. 2018)
«Il problema di scottante attualità è quello razziale», dichiarava Mussolini mentre parlava alla folla festante di Trieste il 18 settembre 1938 annunciando le leggi razziali, quelle che il 17 novembre 1938 si sarebbero tradotte nel decreto legge n.1728 “Provvedimenti per la difesa della razza italiana”, poco dopo i progrom della Kristallnacht in Germania. Al di là di quelle che possono sembrare intenzioni autocelebrative – Mussolini soffriva di un evidente complesso di inferiorità nei confronti di Hitler e dell’antisemitismo di Stato del paese alleato, ma non aveva in quel preciso momento storico necessità di ribadire l’allineamento – il duce ci teneva a evidenziare come una «chiara severa coscienza razziale» non fosse frutto di «imitazioni» o suggerimenti altrui e ne rivendicava la paternità; inoltre, il problema razziale, continuava in quel discorso di Trieste, era «in relazione con la conquista dell’impero». Il «problema ebraico», pertanto, era «un aspetto di questo fenomeno» come lui stesso affermava e l’ebraismo si tramutava in «nemico irreconducibile del fascismo».
Milano, ospedale Niguarda 1938. Lavori forzati
Al contrario di quanto affermato da Di Vittorio nell’articolo del 7 settembre 1938, l’antisemitismo e il razzismo non erano poi così lontano dal fascismo italiano. La ricerca storica e storiografica ha fatto chiarezza su questi aspetti controversi. Pubblicamente Mussolini si dichiarava estraneo, in realtà i suoi progetti erano ben diversi fin dai primi anni Trenta e si erano imposti con lo scopo di arginare e reprimere gli antifascisti che, in molti casi, erano di origini ebraiche (Si vedano G. Mosse, Razzismo in Europa. Dalle origini all’Olocausto e R. De Felice, Storia degli ebrei in Italia sotto il fascismo). Tra gli italiani di origini ebraiche inizialmente regnavano confusione e smarrimento, segnali di una dolorosa difficoltà ad accettare la persecuzione e l’esilio.
Con l’aggressione coloniale dell’Etiopia nel 1935, il razzismo italiano si era fatto più netto e radicale. Il salto di qualità era avvenuto nel 1937, con l’emanazione di norme discriminatorie e per la segregazione razziale contro la popolazione etiope che sanciva l’esistenza di una razza inferiore da assoggettare. La vera natura delle scelte del fascismo e di Mussolini tra il 1937 e l’autunno del 1938 era la volontà di fare degli italiani una razza pura e di rafforzare il consenso, momentaneamente in difficoltà soprattutto in quelle componenti più giovani della società, attraverso la creazione di un nemico comune e interno: «Bisogna mettersi in mente che noi non siamo camiti, che non siamo semiti, che non siamo mongoli. E, allora, se non siamo nessuna di queste razze, siamo evidentemente ariani e siamo venuti dalle Alpi, dal nord. Quindi siamo ariani di tipo mediterraneo, puri». (discorso di Mussolini nel 1938, si veda G. Rochat, Il colonialismo italiano,1973).
Fino al 1943, gli italiani hanno accettato le leggi razziali e razziste come qualsiasi altra legge. La lucidità delle analisi di Di Vittorio dall’esilio in Francia invitava a prendere sul serio «il furore razzista del regime» che aveva bisogno di «incanalare contro gli ebrei l’esasperato malcontento delle masse» e di preparare gli italiani all’odio e alle guerre di aggressione. «Questo fatto non può lasciare indifferente la democrazia italiana», proseguiva Di Vittorio, «la quale ha il dovere di lottare per l’eguaglianza dei diritti di tutti gli onesti cittadini italiani, senza distinzione di religione e di razza» (si veda l’articolo “Difesa degli ebrei italiani e delle organizzazioni cattoliche” del 13 settembre 1938, qui allegato).
L’attualità, poi, della lettura di Di Vittorio si trova in particolare nella sua capacità di comprendere chiaramente la miopia degli italiani sul lungo periodo e in merito a questo provvedimento. «La lotta contro gli ebrei non è che un aspetto della lotta dei grandi trust e della loro dittatura fascista contro l’intero popolo italiano» (in “In aiuto degli ebrei italiani”, 7 settembre 1938). È una lotta contro l’intero popolo italiano e una lotta «antiumana». Quanto possono rimanere davvero circoscritte ai confini di una presunta “razza inferiore” – confini stabiliti su criteri puramente artificiali, ideologici e predatori – la disumanizzazione e l’attacco ai diritti di cittadinanza?
Dal patrimonio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli pubblichiamo due articoli del 1938 tratti dalla “Voce degli italiani”, quotidiano degli antifascisti in Francia diretto da Giuseppe Di Vittorio di cui si pubblica un articolo che denuncia il “delirio razzista” in Italia, e un contributo apparso in luglio su “Giustizia e libertà”, a firma Gianfranchi, pseudonimo di Franco Venturi.
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