Non solo storia – Calendario Civile \ #Genova2001
Tornare a riflettere su Genova e dintorni, venti anni dopo, significa prima di tutto interrogarsi sulle risorse di riflessione, pensieri, progetti che stavano in campo venti anni fa andando verso Genova e quelle che sono rimaste “uscendo da Genova”, tra il 22 e il 23 luglio 2021, o ciò che di quel vocabolario, temi e problemi rimaneva nell’agenda culturale e politica alle 8.49 (ora di New York) di martedì 11 settembre 2001.
Ma anche quanta consapevolezza c’era intorno alla posta in gioco, soprattutto in quel vasto mondo che riguarda la cultura politica delle sinistre politiche di governo. In Italia, prima di tutto, ma anche in Europa.
Per definirlo, forse, una traccia saliente è partire dall’immediato dopo, ovvero dalle reazioni dopo Genova.
Gran parte della riflessione pubblica si giocò allora sulla violenza subìta, sulla libertà violata, sulla sospensione dello Stato di diritto nei giorni del G8. Così è per esempio il tono e il profilo di un’area che in Italia è rappresentata dal pubblico e dai collaboratori di “Micromega” che la rivista propone nel numero immediatamente successivo (2001, n.4).
Per certi aspetti una reazione commisurata alle scene, ma che dimentica di porre attenzione ai temi, che a lungo nella discussione pubblica, soprattutto in Italia, rimasero sottotraccia per tornare ad essere rilevanti un decennio dopo, in vista dell’appuntamento di Expo Milano 2015.
Il tema era molto semplice e le domande ineludibili:
è possibile pensare sviluppo nel XXI secolo secondo i princìpi, i canoni, le politiche e le categorie con cui era stato pensato, propagandato e praticato nel corso del ‘900? Quali le parole, le categorie, le figure con cui provare a dare forma rinnovata e soprattutto rifondata a una idea di sviluppo che non dimenticasse «gli ultimi»?
Sono i temi su cui, per esempio, invita a riflettere Jacques Généreux dal 1998 pubblicamente su «France Culture» in un programma settimanale di economia (dal titolo L’économie en question) volto a creare sensibilità collettiva sulle emergenze e alla necessità di pensare un diverso modello di sviluppo.
Significativamente, nelle settimane che precedono Genova, sulla rivista “Esprit” Jacques Généreux pubblica una lunga riflessione che si origina dai temi e dalle problematiche poste dal Manifeste pour l’économie humaine, il testo che nasce dal confronto a Porto Alegre nel gennaio dello stesso anno (un testo in cui tra le prime 200 firme di intellettuali, economisti, sociologi, politologi, scienziati, biologi non troveremo un esponente dell’intellettualità italiana). Quel testo, in altre parole, non circoscrivibile ricorrendo alla categoria del “benaltrismo”, chiedeva risposte, un ordine diverso di domande. Soprattutto un cambio di registro mentale, prima ancora che politico.
“Pensare a sinistra la politica dell’economia – scrive Généreux nelle prime righe di quel testo – è prima di tutto considerare che c’è sempre un’alternativa”.
Forse un tema sta proprio lì perché se c’è uno scoglio che gran parte della sinistra riformista prima ancora che quella espressa dai movimenti, doveva confrontarsi – allora e ora – consiste nella sfida apparentemente banale, eppure gigantesca, che la sinistra riformista ha di fronte: chiudere e archiviare la convinzione della «fine della storia». Ovvero mettere da parte il refrain con cui esplicitamente erano stati dichiarati gli anni ’90 del secolo scorso, come sintesi della lenta parabola discendente dell’agonia del ’68 e con cui tutto il realismo politico anche a sinistra ha accolto come verità intoccabile.
Quella sfida Jacques Généreaux la ripeterà ancora nel 2003: è pensare “che c’è un’alternativa, che le leggi del mondo sono scritte per uomini e donne, che le pretese leggi naturali sono l’anestetizzante per squalificare e mettere da parte le contestazioni, scoraggiare i resistenti, sconfortare i rivoltosi, sottomettere il mondo solo agli interessi di qualcuno”.
Sono i temi su cui già nel 2000 sono intervenuti Olivier Mongin, Christian Comeliau e che poi – a partire anche dalla «uscita da Genova» e dal silenzio che caratterizza quell’esodo e le molte «diaspore del pensiero critico» – dà vita all’esperienza di una nuova rivista “Développement Durable et Territoires” che unisce sociologia, economia, antropologia e geografia. Un profilo interdisciplinare (interessante il progetto di studio che origina il gruppo e la pubblicazione) che vede la cultura italiana di nuovo del tutto marginale, forse anche in conseguenza di una vecchia tradizione di studio per la quale la geografia o è geografia fisica o geografia politica o geopolitica, ma con molta fatica, e sostanziale diffidenza, riesce ad essere geografia economica, sociale, culturale.
A dire il vero in Italia erano circolate nel lungo decennio ’90, forse un periodo molto più significativo di quanto comunemente non si creda, proprio per la definizione di una riflessione conformista, le voci che richiamavano l’attenzione a ripensare una nuova idea di sviluppo. Erano tutte voci non italiane, culturalmente e politicamente diverse, talvolta anche lontane tra loro, che nella definizione dello scaffale librario di quel decennio avevano svolto un ruolo, ma che ora in merito a questa sfida sembravano marginali.
Erano per esempio Michael Walzer che sulla rivista “Dissent” nel 2000, sulla scorta di quanto è già venuto scrivendo 15 anni prima nelle pagine finali di Esodo e rivoluzione, propone la categoria di responsabilità come condizione per poter pensare futuro condiviso a partire dal tempo presente. Una riflessione che ha come presupposto la revisione radicale delle cose “care a sinistra”.
Leggi qui il documento.
“Troppo spesso – scrive – le rivoluzioni cambiano soltanto i nomi degli uomini (e talvolta delle donne) che brandiscono la frusta. Un sistema oppressivo è sostituito da un altro, e ciò viene giustificato dai nuovi oppressori che dicono di aver dovuto negare la libertà politica e governare con forza e persino terrore poiché non vi era altro modo di rovesciare le trincerate gerarchie del vecchio ordine. La tirannide che hanno istituito sarà temporanea, ci assicurano. Ma non lo è mai”. Una sollecitazione che ricorda la discussione che tra 1945 e 1947 aveva animato il mondo intellettuale dell’esistenzialismo e che poi era naufragata nelle maglie strette della «guerra fredda».
In Italia quel testo arriverà in sordina tre anni dopo in una raccolta di saggi che ha per titolo Il filo della politica, ma senza suscitare particolari emozioni tant’è che a oggi risulta un testo “non disponibile”.
Ma lo stesso a lungo accadrà a Amartya Sen che nel 1999, (pochi mesi dopo aver ottenuto il premio Nobel per l’economia) pubblica Development as freedom (Oxford University Press), velocemente tradotto in italiano, già alla fine dell’anno successivo con il titolo Lo sviluppo è libertà. Quel testo, nonostante la fama del suo autore, impiega molto tempo ad essere recepito nella discussione pubblica a sinistra (a destra semplicemente non c’è eco).
Al centro di quel testo stanno due vocaboli che, significativamente, 15 anni dopo usciranno dall’ambito tecnico, per provare a diventare lessico per costruire un’enciclopedia per le sfide del XXI secolo. Si tratta di «funzionamenti» e di «capacitazioni». Mentre i funzionamenti sono stati di essere o di fare cui gli individui attribuiscono valore (per esempio, essere adeguatamente nutriti, non soffrire malattie evitabili), le capacitazioni sono gli insiemi di combinazioni alternative di funzionamenti che una persona è in grado di realizzare.
In mezzo, ed è solo l’ultimo accenno, sta la riflessione del “Mouvement anti-utilitariste en sciences sociales [M.A.U.S.S.] avviata da Alain Caillé, poi da Jacques Godbout e da Serge Latouche che a lungo in Italia vive in una discussione marginale. Sulle pagine di “Micromega” nel 1994 Roberto Esposito (Donare la tecnica) ne proporrà una lettura critica. In gran parte in Italia avrà un peso la produzione di Serge Latouche, ma senza definire un ambito di riflessione.
Il richiamo alle tesi proposte da Marcel Mauss nel suo Saggio sul dono, rappresentano una sollecitazione di metodo, senza generare un laboratorio di ricerca o di proposta. Così a lungo rimangono senza una traduzione politica e rappresentano solo l’occasione o il pretesto di ripensare sviluppo. Solo coniugando queta parola con sostenibilità le renderà parte del vocabolario collettivo, Accadrà Milano, nel 2015. Quindici anni dopo. Non senza incertezze e senza che si prenda in carica consapevolmente un’idea rinnovata di futuro. Noi siamo ancora a questo punto. Nel frattempo ha nuovo fascino la nostalgia per le pratiche di sviluppo di un altro tempo, come se quelle preoccupazioni fossero state una vacanza, un «lusso», o un’inutile pruderie, e la realtà, la vera sfida fosse tornare “come prima”.
Non c’è un’affinità, o meglio, non è un sentimento che «fa le rime» con una parte consistente dell’immaginario post-pandemico?
Genova – Fatti del G8 del 20 luglio 2001 Carica della polizia a Corso Torino