Ricercatore

Articolo di approfondimento che riassume i temi e i risultati del workshop Fragilità: sfide, indicatori e dimensioni, di Agenda Open Lab.


Deindustrializzazione: fabbrica e società


Nel 1978 alcuni storici dell’economia e dell’industria, da Valerio Castronovo a Duccio Bigazzi, da Antonello Negri a Franco Della Peruta a Giorgio Mori, decisero di partecipare ad un’operazione editoriale di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Fondazione Luigi Micheletti e Società Italiana per l’Archeologia Industriale con l’obiettivo di porre al centro del dibattito i lunghi lasciti delle realtà produttive in dismissione sul finire degli anni Settanta oppure già dismesse. Sorse così la rivista Archeologia industriale, uno strumento indispensabile per comprendere questi vasti processi.

Anche se la deindustrializzazione come fenomeno riguarda principalmente alcuni contesti specifici dello scenario europeo e statunitense, per le società occidentali si tratta di un tema effettivamente centrale, come dimostrato dall’ampio interesse suscitato in diverse discipline umanistiche.

Tra queste, la letteratura ci offre molti esempi di territori e di vite sconvolte dai processi di deindustrializzazione. Nelle pagine di Middle England, Jonathan Coe ricostruisce le sensazioni di Colin Trotter, papà di Benjamin Trotter, uno dei protagonisti del romanzo, quando nel 2012, ormai pensionato, si reca in visita allo stabilimento della British Leyland di Longbridge, nei dintorni di Birmingham, in cui aveva speso l’intera vita lavorativa. Il panorama che gli si para davanti è il medesimo che troverebbe in qualsiasi stabilimento europeo e comunque occidentale investito dalla riduzione del settore industriale: la maggior parte del sito produttivo demolita per far spazio a possibili sviluppi commerciali e residenziali.

Se nel romanzo di Coe viene così a galla lo sfaldamento delle comunità territoriali, il cinema, ancor prima della narrativa, ha posto l’accento sul “dopo-deindustrializzazione”. Full Monty di Peter Joseph Cattaneo ha messo al centro del discorso non la lotta politica, quanto la ripresa della vita nei territori segnati dalla chiusura delle fabbriche. In altri termini, ha ragionato sulle trasformazioni avvenute nel panorama urbano, nelle condizioni individuali, nelle relazioni infra-famigliari, nella trasformazione del territorio, considerando anche la dimensione antropologica.

La sfida della frammentazione, dunque, non è solo l’impresa; è considerare anche, se non soprattutto, che cosa muove quelle rapidissime e profonde trasformazioni. E ancora: è comprendere come induce individui, gruppi, territori, amministrazione pubblica, società civile a indagare le cause, a proporre soluzioni alternative anche provvisorie, ma anche carpire le modalità secondo cui vengono riscritte le tavole di valori, di comportamento individuale e collettivo.

Come spiega Gabriella Corona, la deindustrializzazione può raffigurare un’occasione per i territori investiti, ma anche rappresentare il contesto ideale per l’esplosione dei populismi. In questo senso, il caso di Bagnoli è paradigmatico.


Bagnoli come caso paradigmatico del processo di deindustrializzazione in Italia?


Per comprendere quali risposte adottare di fronte alla frammentazione che segna in senso lato alcuni siti ex industriali in Italia come in Occidente, un caso esemplare è rappresentato da Bagnoli. Come illustrato da Gabriella Corona, questo quartiere della periferia occidentale di Napoli che ha conosciuto una lunga storia industriale durata per tutto il XX secolo: il complesso produttivo raggruppava la siderurgia, avviata fin dall’ultimo ventennio dell’Ottocento, l’industria del cemento, quella dell’amianto e quella dei prodotti chimici. All’inizio degli anni Ottanta del Novecento ha preso piede un processo di deindustrializzazione che ha conosciuto degli sviluppi anche drammatici.
Secondo Corona, il caso di Bagnoli può essere analizzato considerando quattro specifiche questioni, in verità valide anche per contesti geografici e sociali differenti.

La prima questione riguarda gli effetti della deindustrializzazione sul tessuto sociale: la ricerca sociologica ha dimostrato come la deindustrializzazione a Bagnoli abbia frantumato il tessuto sociale, il sistema delle relazioni e le forme orizzontali di aggregazione, fondate sul lavoro in comune e su un impianto di valori condiviso (la fiducia, la cooperazione, la reciproca assistenza). I sociologi hanno notato l’emergere delle forme verticali di associazione, ovvero lo sviluppo delle clientele.1
Di conseguenza, il secondo tema su cui porre l’attenzione è la trasformazione che ha riguardato i luoghi del dibattito politico: dalle sezioni di partito (tendenzialmente quelle del Pci) ai circuiti culturali, ai centri studio, comunque sempre legati alle forze politiche. Oggi, quello spaesamento politico si manifesta con il forte consenso conquistato dal Movimento Cinque Stelle e, ancora prima, dal Movimento arancione di Luigi De Magistris.

L’altra questione da sottolineare è la presenza di una comunità non coesa: non esisteva una visione comune tra cittadini e lavoratori. Questa mancanza è in qualche modo legata al fatto che Bagnoli fu una realtà duale: da un lato, una delle più evocate da un’antica tradizione culturale e letteraria come tra le più belle e suggestive del golfo di Napoli; dall’altro, l’esigenza di tutelare il lavoro anche a discapito dell’ambiente. La Bagnoli di una riscoperta centralità dell’ambiente è divenuta la base di una nuova narrazione pubblica che il sindaco Antonio Bassolino, nei primi anni della sua consiliatura (attorno alla metà degli anni Novanta), ha adoperato per motivare una scelta politica ben precisa: pur riconoscendo il ruolo del lavoro operaio nel corso del Novecento, secondo Bassolino bisognava realizzare una nuova Bagnoli per superare il lascito negativo più impattante dell’industrializzazione, l’inquinamento.

Vi è, inoltre, il tema della rigenerazione dell’area deindustrializzata. Le politiche di deindustrializzazione hanno avuto una lunga storia di lentezze, di battute di arresto, di ritorni indietro. Durante i primi anni Novanta, la zona di Bagnoli è stata oggetto di una proposta urbanistica elaborata direttamente dall’amministrazione comunale di Bassolino, che prevedeva un totale cambio della funzione del sito, un polo turistico comprensivo della rigenerazione della spiaggia, la costituzione di due grandi parchi e di una serie di strutture turistiche, così come avvenuto in altri contesti europei come ad esempio nella Ruhr o negli Stati Uniti. Sempre a detta di Corona, negli anni del nuovo riformismo, un riformismo distaccatosi dall’alveo tradizionale socialdemocratico, la politica si è dimostrata incapace di avere la meglio sulle ragioni della sfera economica, bloccando così il processo di rigenerazione di Bagnoli.


Il ruolo delle bonifiche: uno scoglio insuperabile? Quali ipotesi di soluzione? La politica, il ruolo delle bonifiche e le pratiche urbanistiche


Se si osservano uno degli aspetti più evidenti prodotti dalla deindustrializzazione, si nota facilmente come questo processo lasci sui territori delle aree enormi da rigenerare. Gabriella Corona ha evidenziato che un tema particolarmente spinoso da prendere in considerazione nel processo di ripartenza post-industriale è quello della bonifica. Il caso di Bagnoli ci spiega che, in queste situazioni, si scontrano visioni e proposte di bonifica agli antipodi: da un lato, coloro che sostengono l’opzione della bonifica integrale, volta ad eliminare dal suolo gli idrocarburi e le altre sostanze nocive; dall’altro, coloro che ritengono sia sufficiente una messa in sicurezza dei suoli attraverso l’impianto di un certo tipo di vegetazione. Gli sviluppi recenti, anche quelli di natura giudiziaria, dimostrano le difficoltà nei processi di bonifica.

A smentire il fatto che il problema delle bonifiche riguardi soltanto territori dal passato industriale inseriti in contesti più deboli economicamente – da Bagnoli a Taranto – è il caso della provincia di Pavia, che secondo Luca Mocarelli raffigura ad oggi un problema dalla non semplice soluzione per l’establishment politico nazionale e locale. Questo tipo di problematica, intesa cioè con uno dei lasciti più complessi dei processi di deindustrializzazione, riguarda però anche Milano. Come osservato da Alessandro Balducci, anche nel contesto milanese, benché sia stata l’area capace di assorbire con maggiore velocità i postumi della deindustrializzazione, il processo non è stato affatto semplice: a fronte dei 10.000.000 metri quadrati di aree dismesse, una metà è stata rapidamente riciclata perché l’amministrazione è riuscita a renderla trasformabile sulla base delle esigenze di coloro che se ne facevano carico. Tuttavia, le grandi aree industriali extra-urbane hanno raffigurato situazioni estremamente complesse, sia per il tema delle bonifiche che è legato all’incapacità del Paese nell’affrontarlo, anche perché le bonifiche della maggior parte degli ex siti industriali sono stati bloccati dal Ministero dell’Ambiente. Al contempo, un’altra criticità è rappresentata dal fatto che sono andati in difficoltà e presto falliti diversi operatori incaricati di portare a termine la prima fase del processo di bonifica. A Milano, un ruolo per certi versi importante è stato rappresentato dalle università: è stato così con la Bicocca, con la Bovisa al Politecnico e con la Barona allo IULM. In una città  dinamica come Milano queste grandi sostituzioni hanno compensato le uscite dei lavoratori con l’ingresso degli studenti. Ovviamente, al netto delle difficoltà sui processi di bonifica, in questo caso fa molta differenza il contesto tra città molto dinamiche e città poste invece all’interno di regioni urbane in difficoltà.


La deindustrializzazione e i suoi lunghi effetti


In considerazione dello stesso caso di Bagnoli, la deindustrializzazione fa esplodere a sua volta due macro-questioni. A detta di Roberta Garruccio, si deve ragionare su scale spaziali diverse: quella locale, quella nazionale, quella continentale, e al contempo bisogna riflettere su cronologie multiple. Per comprendere al meglio quest’ultimo aspetto, si deve introdurre il concetto di emi-vita, un concetto mutuato dalla fisica per porre al centro del discorso le conseguenze di lungo periodo, che però sono tutt’altro che facili da identificare. Mentre la cause economiche, soprattutto grazie al lavoro degli storici, risultano ormai acquisite, le conseguenze ambientali, culturali e politiche sono clamorosamente frammentate e vanno in moltissime direzione, rendendo difficile una ricostruzione, e dunque una reazione, complessiva. A proposito delle reazioni politiche all’industria che viene meno all’interno di una grande città, se si incrociano le mappe del PIL pro-capite, quelle relative ai processi di deindustrializzazione e quelle sull’andamento elettorale, ne esce un quadro maggiormente sfumato e proprio per questo più difficile da interpretare: esemplificativi, in questo senso, le differenze in termini di voti, oltre che tra Bagnoli e Napoli città, tra il Michigan e Detroit così come tra Milano e Sesto San Giovanni.

Implicitamente, tra le conseguenze della deindustrializzazione sul piano più generale vi è quella del “riprendere a vivere”. Per Giovanni Scirocco, se si considera la dimensione delle varie soggettività coinvolte, non si può non considerare la riscoperta del tempo: prendendo in esame gli spazi segnati dalla deindustrializzazione, le persone, purtroppo per loro, tornano ad avere un’inimmaginabile quantità di tempo a disposizione. Richiamando la lezione di Vittorio Foa nelle pagine di La Gerusalemme rimandata, secondo Scirocco il rischio vero è l’esplosione di una contraddizioni in termini: da un lato, i più giovani che, non riuscendo ad entrare nel mondo del lavoro, possono disporre di un’ampia quantità di tempo; dall’altro, i più anziani che, sempre loro malgrado, sono alla continua rincorsa della conquista del tempo.

Per Luciano Fasano, la sfida può essere vinta grazie a nuove forme di mediazione politica, sia sul piano locale che su quello globale:


Quale politica per superare le difficoltà della deindustrializzazione: tra prassi politiche locali e approcci globali


Problemi complicati come quello di Bagnoli richiederebbero il ritorno dei tempi lunghi della riflessione politica, che però secondo Giovanni Scirocco è difficilmente realizzabile: infatti, la spettacolarizzazione della politica spinge in direzione assolutamente contraria. Al netto di questo quadro odierno, per trovare una risposta concreta alle criticità scaturite dai processi di deindustrializzazione, a detta di Luciano Fasano, in Occidente la deindustrializzazione è certamente in atto, mentre a Bangalore, così come, per esempio, a Shangai, è in corso una rapidissima re-industrializzazione. Dal punto di vista politica, l’attore pubblico, che non svolge più il suo ruolo nella dimensione dello Stato nazionale, deve spingersi a ragionare in termini di proposta di policy considerando lo scenario globale, dove la scala europea deve essere contemplata come la minima dimensione d’azione politica.

Se però si considerano alcuni specifici casi locali, possono essere intercettate delle risposte da cui poter fare emergere dei modelli d’azione. A questo proposito, Marie Moise menziona due casi particolarmente significativi che, forse, possono a loro volta diventare paradigmatici. Vista e considerata l’ampia crisi della politica, crisi che ovviamente investe in profondità anche le forze progressiste, una risposta alle rotture può giungere da risposte locali, nate sul territorio e per questo figlie delle necessità dei territori stessi: esemplificativo è il caso di Taranto, dove il “Comitato di giustizia per Taranto”, dopo uno studio lungo un decennio, ha proposto un piano di riconversione ecologica e produttiva che prevede una bonifica del territorio, molto più vantaggioso sul piano economico rispetto ai progetti presentati “dall’alto”. Altrettanto rilevante è quanto avvenuto a Trezzano sul Naviglio, poiché significativo di una capacità di riappropriarsi degli spazi e delle esigenze dei cittadini: in un’area deindustrializzata, lo stabilimento chiuso di Maflow è stato recuperato e nuovamente adoperato dagli operai rimasti senza lavoro, che l’hanno ribattezzato Ri-Maflow nel marzo del 2013 con alterne vicende. È un esempio, una miccia da tenere in considerazione nel quadro dei territori frammentati del nostro Paese.


1 Cfr., per esempio, L. Brancaccio, Crisi industriale, crisi sociale e sistema politico nel declino di Bagnoli, in Dalle partecipazioni statali alle politiche industriali. Storie industriali e del lavoro, Meta Edizioni, Roma 2003, pp.139-160; M. Albrizio e M. A. Selvaggio (a cura di), Vivevamo con le sirene. Bagnoli tra memoria e progetto, La città del sole, Napoli, 2001.

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