Dopo tutto ricordiamo che, come ha osservato Kant, dato che la terra è tonda, noi siamo dei tipi che prima o poi sono destinati a incontrarsi. Negli ultimi tempi, mi è accaduto spesso di ricorrere a questa massima di Kant come a uno scudo protettivo per le mie congetture ed esplorazioni filosofiche. […] Vorrei, in conclusione, aggiungere un commento. Se ha ragione Kant e, prima o poi, siamo dei tipi destinati a incontrarci, dovremo chiederci qualcosa a proposito dei luoghi, dei siti degli incontri. Abitiamo lo stesso mondo. Ma vi è un mucchio di luoghi differenti, in giro per il mondo. Alcuni sono desiderabili; altri, sono un inferno. Alcuni sono modellati dell’ideali dell’ospitalità; altri, contrassegnati dall’opacità della claustrofobia; dall’insicurezza e dalla paura che ingiungono a tirar su muri; erigere barriere e recintare ghetti; o banlieue, favela e bidonville. […]
I luoghi migliori per incontrarsi non dovrebbero essere le città dei muri, delle barriere o dei ghetti, né le città delle distanza e dei blocchi fissi per sempre, né le città disegnate dall’architetto cartesiano. Dovrebbero essere piuttosto le città disordinate di Wittgenstein. Quelle che assomigliano al modo in cui è fatto il nostro linguaggio. Le città interculturali, quelle in cui metamorfosi e contaminazione sono parte, e parte importante, di un paesaggio che ci restituisca, nel tran tran quotidiano della convivenza e delle ordinarie cose della vita, le linee di un autoritratto in cui si possano riconoscere, senza vergogna, paura o indignazione, tipi come noi. Tipi destinati prima o poi a incontrarsi. Con tutto il corteo variopinto, pasticciato e insaturo di una essenziale varietà di storie, e di idee, e di commenti, a proposito dei beni umani.
Abbiamo qui pubblicato un estratto da Salvatore Veca, Le cose della vita. Congetture, conversazioni e lezioni personali, Bur Rizzoli 2006.
Ringraziamo Filippo Romano per la foto di copertina “Città Mobile. New York: Manhattan 42 Street, ottobre 2002”.