Giorni fa il vicepremier Luigi Di Maio ha accusato la Francia, e il suo neocolonialismo, di essere la causa principale delle migrazioni nel Mediterraneo. Ora in questa dichiarazione è condensato tutto il rimosso italiano sull’intera storia coloniale europea e nazionale. Il vicepremier ha amplificato con questo suo intervento l’amnesia italiana sul tema addossando la patente di “cattivo” alla sola Francia.
La Francia è vero è stata potenza coloniale e neocoloniale, ma l’Italia non è stata da meno. Non è un caso infatti che tre paesi, come Eritrea, Libia e Somalia, colonizzati dall’Italia e con una influenza italiana durata negli anni successivi alla decolonizzazione, siano oggi tra le zone più instabili del mondo. Paesi in cui l’Italia ha messo in campo dispositivi di violenza e assoggettamento feroci. E dove le popolazioni sono state private di libertà e futuro.
Quindi sarebbe da dire perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo?
Certo il colonialismo francese non è stata una “pagliuzza”, ma non mettere a fuoco che si è stati compartecipi come sistema Italia, al pari delle altre potenze europee, di questo crimine contro l’umanità, è davvero singolare. Come è davvero singolare, se non addirittura drammatico, che pochi nel mondo culturale italiano, in questi nostri anni Dieci, si siano occupati attivamente di colonialismo. In Europa il tema ha avuto spazio in documentari, in pagine di giornali (basti pensare all’attenzione sul tema di un giornale come The Guardian, qui e qui), in conferenze universitarie e ha permeato il lavoro artistico, narrativo e performativo, di tanti. In Italia questo è avvenuto grazie a pochi/e coraggiosi/e, ma il tema è ancora considerato poco importante dal mainstream. Non c’è il vuoto totale naturalmente. Rispetto a soli 20 anni fa qualcosa si è mosso nel mondo accademico e sprazzi si sono visti anche in letteratura. Ma sul dibattito riguardante coloniale e neocoloniale, l’Italia, va detto, è ancora drammaticamente indietro. Questa storia si preferisce rimuoverla, anziché studiarla.
Come ci ricorda David Bidussa nel suo ricco e importante scritto introduttivo Per un laboratorio di indagine sulle inquietudini e violenze nel tempo presente recentemente si è parlato a lungo (con punte anche di eccellenza) di fascismo, antifascismo, resistenza, populismo, nazionalismo, europeismo. Ma la parola colonialismo non è quasi mai emersa in questo dibattito italiano e quando invece veniva coraggiosamente pronunciata, sembrava più un arredo, un vezzo, del discussant che una reale voglia di riempire il termine di tutta la drammaticità storica che lo ha attraversato.
A questo vanno fatte eccezioni i libri pioneristici di Angelo del Boca e Nicola Labanca, le ottime ricerche di persone come Giulietta Stefani che con il suo Colonia per Maschi ha scritto un piccolo capolavoro da leggere e rileggere, lavori teatrali ironici e ficcanti come Acqua di Colonia della compagnia teatrale Frosini-Timpano (Daniele Timpano, Elvira Frosini) e il romanzo Sangue giusto di Francesca Melandri, un romanzo che spinge gli italiani (e gli europei tutti) a guardarsi nello specchio della loro colpa e della loro rimozione.
Ma nonostante queste vette che comprendono anche altre ricerche, altri libri e nonostante la conversazione collettiva sul tema (cui anche la sottoscritta ha contribuito ad arricchire con i suoi interventi) il dibattito a livello di mainstream è rimasto relegato al fondo del palcoscenico.
Per mesi mi sono chiesta i motivi di questa assenza di discussione intorno al colonialismo, proprio in un momento che un razzismo quasi biologico si è riaffacciato sulla scena italiana. E soprattutto in un momento in cui il continente africano è interessato da un nuovo Scramble for Africa, una nuova divisione dell’Africa, dove ai vecchi soggetti coloniali di un tempo (Europa) se ne aggiungono altri (Cina, Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Russia, Israele, Stati Uniti).
Ma poi è arrivata la dichiarazione del vicepremier Luigi Di Maio a farmi toccare con mano l’abisso profondo di questo rimosso coloniale e la necessità urgente non solo di prendere in mano il dibattito, ma di renderlo popolare, con ogni mezzo necessario.
Non si può liquidare il colonialismo come qualcosa di superfluo, passato, in fondo inutile. Perché L’Europa, con i suoi crimini del passato e quelli che sta compiendo nel presente (land grabbing in testa), non può esimersi da una presa di coscienza sul colonialismo storico e la cancrena nata dalle sue conseguenze.
Negare i danni del colonialismo e la relazione con la povertà attuale di ampie zone di mondo (e delle conseguenti migrazioni) è non solo imperdonabile, ma mostra l’impreparazione della nostra classe dirigente davanti ai nodi storici di un mondo complesso e intrecciato come quello in cui viviamo in questo burrascoso XXI secolo. Se non capiamo quei nodi coloniali, se non conosciamo la storia, e non la mettiamo in prospettiva, non possiamo capire quasi nulla di quello che ci sta succedendo intorno.
Se apriamo il vocabolario Treccani, o se consultiamo la sua pagina online, alla parola colonialismo corrisponde questa definizione:
colonialismo In età moderna e contemporanea, l’occupazione e lo sfruttamento territoriale realizzati con la forza dalle potenze europee ai danni di popoli ritenuti arretrati o selvaggi.
In quel “ritenuti” c’è quella storia che il mainstream italiano non ha mai voluto guardare in faccia. Ovvero la costruzione dell’altro come inferiore, selvaggio, mostro da addomesticare, bambino da educare, donna da penetrare, che l’Europa ha fatto sua dal 1492 in poi. Secoli in cui il corpo dell’altro, inteso come altro non europeo, non bianco, non cristiano, è stato campo di battaglia di interessi che volevano spogliare una parte di mondo delle sue risorse, del suo spirito e financo del suo corpo venduto spesso al miglior offerente. Chi veniva inferiorizzato perdeva lo status di umanità per trasformarsi in oggetto e in quanto oggetto mercificabile, in una società dominata dalla spogliazione e da un concetto liberista della vita sul pianeta. La logica del profitto ad ogni costo, ha portato alla tratta degli schiavi prima e poi a occupare interi territori riducendoli alla povertà estrema. I colonizzati non erano padroni della propria vita e ogni cosa era regolata dal colonizzatore. Il libero arbitrio, quello umano non quello divino, veniva così di fatto negato. Orientalismi, esotismi, stereotipi hanno contribuito a questa inferiorizzazione necessaria al capitale e alla potenza colonizzatrice. E questa inferiorizzazione ha portato come naturale conseguenza la violenza su quei corpi considerati non a norma. E la conseguenza di tutto ciò è che ora i discendenti di quelle persone, che sono state assoggettate nei secoli ad un potere coloniale furioso, muoiono nel Mediterraneo su barche malmesse o sulla frontiera tra Messico e Stati Uniti perché è negata loro ogni forma legale e sicura di viaggio. Corpi vilipesi e umiliati ieri come oggi e al quale l’Europa, almeno quella che sogna una bella Europa, un’altra Europa, deve dare necessariamente una risposta.
Ed è dal concetto di Europa che si deve cominciare a ragionare per ribaltare l’orrore. Il Continente oggi mette uno contro l’altro i suoi cittadini. Si è contro l’Europa (sovranismo) o per l’Europa (europeismo). Ma raramente si ragiona di cosa il continente (ma anche l’unione scaturita) è stato e come vogliamo che diventi (e non diventi) nel futuro. La parola riempie le bocche, si sprecano gli hashtag pro e contro, si mettono nei social le bandiere per sottolineare un’appartenenza o meno a questo concetto, ma poi il tutto si perde in un indistinto brusio che non fa capire praticamente nulla. L’Europa è chiaro è stata cultura, innovazione, anche per molti sogno. Ma non ci dobbiamo dimenticare, e da qui dovrebbe partire un ragionamento del tutto nuovo e rivoluzionario, che il continente è stato anche un dispositivo di violenza pauroso per se stesso e per gli altri. Pensiamo solo a tutte le guerre che hanno insanguinato il suolo europeo. Pensiamo alla Shoah. Pensiamo al colonialismo. L’Europa quindi dovrebbe fare un’esame di coscienza e mettere finalmente al centro della scena le contraddizioni verso i cosiddetti altri, che poi altri non sono. Si deve decolonizzare l’Europa e nel nostro piccolo decolonizzare l’Italia. Se hashtag deve essere allora sia #DecolonizeEurope #DecolonizeItaly. Ma questa operazione può essere possibile solo se negli ambiti culturali si cominciano a destrutturare&decolonizzare i curriculum scolastici, quelli universitari, il canone letterario, l’insegnamento della storia. Si devono mostrare le vene aperte di questa Europa che ha nascosto sotto il tappeto le sue nefandezze. Ovvio che tutto questo si deve fare insieme a quei cittadini e a quelle cittadine europee che ancora sono considerati altri, stranieri, alieni anche se nate o cresciute o comunque formate in Europa da una o più generazioni. Perché solo uno sguardo plurale può arricchire il dibattito. Ma questo sguardo plurale spesso non viene ascoltato, spesso viene marginalizzato. Pensiamo alle nostre aule scolastiche, ai nostri cataloghi editoriali, alle lezioni universitarie, tutto è purtroppo di un bianco cangiante. I cosiddetti altri difficilmente accedono ai lavori culturali e chi accede fa molta fatica. Per esempio in Gran Bretagna in un corpo docente di 19.000 unità, le percentuali di presenze cosiddette altre sono bassissime. Arabi e afrodiscendenti raggiungono a stento l’1% della rappresentanza. E la situazione è drammatica anche in Francia, Olanda, Germania, paesi scandinavi, Spagna, Portogallo e naturalmente Italia dove le presenze altre si contano davvero sulle dita di una mano o quasi. E questo vale per l’editoria, il cinema, le arti visive, la scuola, i media. Da questi dati drammatici siamo partite io e la mia collega Leila el Houssi docente di studi islamici. Per questo tempo fa abbiamo aperto un gruppo segreto su Facebook (che nelle nostre intenzioni speriamo diventi una rete che vada oltre il virtuale per irrorare il reale) per contarci. Il gruppo #NoiCisiamo afrodiscendenti nella cultura italiana, ha per noi l’idea di una piattaforma, quasi una pista di decollo, dove ci si può incontrare e organizzare ognuno con la propria libertà momenti di riflessione collettiva all’interno di una società immobile che ancora legge i nostri corpi come estranei, soprattutto in quei ambiti culturali in cui non solo ci siamo formati, ma di cui siamo da tempo anche produttori culturali.
Ma come si fa a creare un discorso veramente plurale se poi ai corpi altri è negata la parola, lo spazio e la visibilità?
Perché sono stati in pochi a chiedere un’opinione sull’Europa ad un afroeuropeo, cinoeuropeo, musulmano europeo? Perché questa cecità?
Si deve in questa Europa sicuramente aprire le frontiere di questi mondi culturali ancora troppo chiusi, troppo bianchi e troppo classisti.
E questo vale moltissimo per la nostra Italia dove dei cosiddetti altri si parla, ma raramente se ne ascolta la voce. I cosiddetti altri (che poi va ribadito altri non sono) diventano oggetto di studio, di narrazioni, ricerche, dossier, interviste, romanzi fatti da europei bianchi (spesso con modalità coloniali, di sguardo che giudica e giunge a conclusioni affrettate), ma dove il soggetto fa molta fatica a trovare spazi. Mancano le opportunità per una proficua autonarrazione libera e non telecomandata. Questo non significa che gli europei bianchi debbano smettere di raccontare, ma significa solo che anche chi oggi è reso solo oggetto, ha diritto di essere soggetto e protagonista non solo di una narrazione che lo riguarda, ma che abbia anche la possibilità di poter uscire da sé. Ovvero mettere bocca anche in quello che non lo riguarda in prima persona come biografia. Il cosiddetto altro, che altro non è, non deve essere interpellato solo sulla diversity, ma il suo sguardo che si porta due o tre culture sulle spalle, deve essere usato per arricchire il dibattito e rivoluzionare la metodologia globale. Solo così si potrà davvero muovere un passo verso quell’Italia (e quell’Europa) decolonizzata che ci meritiamo.