Pochi anni fa nel pieno della crisi economico-finanziaria stavo conducendo una ricerca antropologica sulla scomparsa di alcune figure artigianali che in passato aveva dato lustro al distretto industriale del mobile in Brianza e ora si trovavano sull’orlo dell’estinzione, non per ragioni di mercato bensì perché il sistema di trasmissione di quei saperi immateriali si era inceppato. Mentre stavo cercando di ricostruire le ragioni di questa situazione attraverso una serie di interviste e di osservazioni sul campo, un giorno venni casualmente a conoscenza di un fatto che attirò la mia attenzione. Mi trovavo all’interno di una piccola impresa artigiana, un anonimo capannone in una zona industriale della Brianza monzese, in cui il titolare mi aveva dato appuntamento per una intervista. L’ambiente era spazioso, occupato da alcuni macchinari con una decina di operai, alcun in camice blu, indaffarati nelle operazioni di taglio e tornitura del legno. Poiché il rumore delle macchine era assordante e amplificato dal riverbero delle pareti spoglie, fui invitato ad andare al piano di sopra, occupato da scaffali, scrivanie e tutto ciò che serviva per renderlo un ufficio dalle ampie dimensioni. Il titolare, che chiamerò il signor Riva (cognome di fantasia), mi fece accomodare su una delle ampie scrivanie bianche e mi spiegò che ora producono mobili per banche e grandi industrie e, all’occasione, per abitazioni private di qualsiasi genere.
Ogni tanto la nostra conversazione era interrotta da due lavoratori – me li presentò come suoi figli – che venivano ora a controllare alcuni disegni su CAD al PC, ora a conversare al telefono con vari clienti. Oltre ai due figli soci, mi diceva, l’impresa artigiana era composta da tre dipendenti (il più giovane dei quali non è italiano “perché nessuno vuole fare più questo mestiere”). Percependo probabilmente la perplessità espressa dal mio sguardo si affrettò a dire: “lei ne ha visti un po’ di più giù in reparto … Però non sono nostri dipendenti, sono artigiani che ci danno una mano quando abbiamo bisogno”. In pratica, Fino a pochi anni fa aveva una struttura organizzativa “tradizionale”: tutti i dipendenti erano assunti a tempo indeterminato e a tempo pieno. Però, man mano che gli operai andavano in pensione, l’incertezza sul futuro del comparto del legno lo avevano indotto a sostituire i macchinari obsoleti, per i quali aveva parzialmente beneficiato di incentivi pubblici, e a non assumere più nessuno, riducendo l’organico a tre dipendenti.
Eppure per un osservatore esterno sembrava non fosse cambiato nulla. I miei occhi di ricercatore vedevano semplicemente “operai” in camice blu alle prese con frese e seghe elettriche, anche se dietro quest’apparenza si celava un modello organizzativo completamente diverso e invisibile. Infatti, quelli che sembravano operai erano in realtà quasi tutti artigiani con partita IVA, quelli che sembravano lavoratori a tempi pieno, erano in realtà lavoratori on demand. Dunque, nell’arco di un breve periodo si è completamente trasformato sia il modo di lavorare sia il rapporto contrattuale con i propri “dipendenti” (ora “collaboratori esterni”). In quel contesto lavorativo, gli operai erano diminuiti costantemente, tuttavia non potendo fare a meno di manodopera specializzata il signor Riva e figli si erano avvalsi, e continuano ad avvalersi, di artigiani con partita IVA che all’occorrenza, tramite un giro di conoscenze, vengono a dare loro una mano quando le commesse richiedono maggior manodopera o manodopera specializzata.
La Lambretta. Fotografia della metà del Novecento tratta dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
In caso di necessità si rivolgono anche ad un’agenzia di lavoro. Quanto osservato all’interno di questa micro-impresa sembrerebbe assomigliare a quel fenomeno già diffuso nel mondo anglosassone che alcuni recentemente hanno chiamato gig economy. Al posto di prestazioni lavorative continuative, il datore di lavoro richiede prestazioni on demand, cioè solo quando ne ha bisogno. Il termine gig deriva dal gergo musicale, sono le “serate” fatte da musicisti che si incontrano per suonare (per fare appunto una gig) a pagamento o anche solo per il piacere di fare musica assieme e alla fine poi ognuno va per la sua strada. I risvolti di questa estrema flessibilità dell’impiego meritano una seria riflessione perché hanno esteso la precarizzazione anche a forme di lavoro più professionalizzanti e specializzate, come quelle fornite dagli artigiani con partita IVA, i quali, non va dimenticato, hanno costruito la loro competenza e professionalità grazie alla continuità dell’esperienza lavorativa maturata nel corso degli anni.
Ma chi sono questi lavoratori? Il loro profilo biografico e le loro storie di vita lavorative saranno oggetto della mia ricerca nei prossimi mesi. Sembra comunque evidente che non siano compatibili con i profili che emergono nel settore del produzione della conoscenza o in quello dei servizi privati di vario genere. Al momento si può affermare che molti di questi artigiani provengono dalle numerose piccole e micro imprese che in questi sono state costrette a chiudere o a ridurre la propria forza lavoro. E non è neppure chiaro se si tratta di una condizione lavorativa provvisoria a causa della prolungata crisi economica o destinata ad assumere una connotazione strutturale che farà tendenza.