Si propone qui un estratto dal volume Città, sostantivo plurale edito da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, disponibile nelle librerie Feltrinelli e in tutti gli store online.
A spingere il nostro andare a piedi e nei minibus collettivi c’era la volontà di realizzare un’etnografia del mukhero, forma di commercio transnazionale mozambicano che, essendo generalmente condotto senza licenze né pagamento di tariffe doganali, tende a sfociare nel contrabbando. Attraverso il mukhero, i beni di consumo più disparati, dai generi alimentari (in un Paese in cui l’industria agroalimentare è quasi inesistente) ai prodotti e attrezzature per uso domestico largamente carenti, ai generi di consumo come i cellulari e i computer, sono importati in Mozambico dai paesi limitrofi, specialmente il Sud Africa. Johannesburg, e la regione del Gauteng in cui rientra, sono tra i principali bacini di approvvigionamento dei prodotti importati, attraverso circuiti articolati che includono tanto il commercio all’ingrosso, locale e non, (come i mall cinesi) quanto il commercio al dettaglio etnico. Ad acquistare merci e contrattare prezzi tra realtà economiche disparate, gestire il trasferimento tra magazzini, negozi e mezzi di trasporti, assicurarsi del corretto trasporto lungo le centinaia di chilometri che tengono insieme geografie translocali cosi estese e, appunto, chi pratica il mukhero.
Fiorito in Mozambico in reazione alla graduale scomparsa della rete di supporto economico fornita dallo Stato dopo la dissoluzione del progetto socialista, il mukhero rappresenta oggi un lavoro più facilmente ottenibile di quelli disponibili nel mercato del lavoro salariato ed e, di fatto, tra le poche possibilità per le donne in condizione di fragilità sociale ed educativa (rimaste sole a crescere i propri figli e spesso con uno scarso livello di formazione) di sostenere sé stesse e la propria famiglia. La preponderanza della presenza femminile nel mukhero si estende alle fasce d’età più diverse: per le più anziane il commercio transfrontaliero rappresenta quasi la naturale evoluzione del commercio ambulante praticato dalle madri; le più giovani, invece, trovano nell’import-export su distanze sempre più ampie, spesso transcontinentali (tra Mozambico e Cina o Brasile), una redditizia attività collaterale alle altre che svolgono (studio o altri lavori).
Ecco allora che il mukhero può essere interpretato come una reazione alle molteplici forme di limitazione della libertà e delle aspirazioni individuali che le donne si trovano a vivere in una società in cui la condizione di fragilità individuale, specialmente dei soggetti femminili, si interseca con quella socio-economica.
Consentendo la rara combinazione di possibilità di sostentamento e autonomia – tutte le mukheristas con cui ho lavorato preferivano definirsi business women – e l’opportunità, oltre che di equipaggiamento economico, di un’autentica emancipazione, il mukhero continua a essere scelto nonostante l’alto grado di rischio, insicurezza ed esposizione alla violenza che comporta. Le forme di violenza incontrate dalle mukheristas sono molteplici e vanno dal rischio di assalto da parte di rapinatori, ben consapevoli della quantità di denaro che viaggia con le trasportatrici, alle molestie alla frontiera, al costante rischio vissuto nell’ambiente ostile e xenofobo di Johannesburg, dove esse sono concepite come immigrate non desiderate. Ciascuna delle donne che ho incontrato nel corso della mia ricerca aveva una serie di aneddoti su esperienze di violenza, sia legate ai contesti familiari da cui provenivano e in cui vivevano, sia a episodi di aggressione vissuti direttamente o di cui erano state testimoni durante il mukhero.
A sorprendermi ogni volta, pero, era la ben poca passività con cui queste esperienze venivano raccontate, tanto che nessuno dei loro racconti riproduceva l’immagine della vittima. Piuttosto, l’esposizione consapevole e spesso assai tangibile e concreta alla violenza era la condizione necessaria, ma in fondo aggirabile, o comunque sopportabile, per provare a superare forme di limitazione più radicali (e non meno violente) della libertà e delle aspirazioni personali.
Questo piccolo dettaglio e stato significativo innanzitutto per me stessa, giacché ha reso evidente come il mukhero, ben più di un lavoro “informale”, sia di fatto una pratica di costante conquista e riconquista dello spazio negato nella città. Viene ottenuta percorrendo itinerari complessi, articolati per strategie e tempistiche, che sono la conseguenza sia dei ritmi del lavoro che dell’esposizione al rischio. Così si tende a evitare certi luoghi o a frequentarli in gruppo, per essere più protette; per la stessa ragione, a viaggiare insieme; e, ancora, a inscenare tattiche varie di “invisibilizzazione”, che hanno come scopo la circolazione in città evitando il riconoscimento come lavoratrici straniere. Quasi tutte le donne con cui ho lavorato prendevano a Johannesburg nomi locali, come unico modo possibile per realizzare il proprio abitare mobile. In questo modo, le mukheristas riescono ad attraversare una molteplicità di confini: non solo la frontiera del Mozambico, ma gli innumerevoli confini interni ed esterni, visibili e invisibili, degli ambienti fisici, sociali e lavorativi, che tengono insieme.
In un settore in cui la preminenza guadagnata si riconquista ogni giorno mediante innumerevoli contrattazioni, negoziazioni e transazioni con grossisti, commercianti, ambulanti, trasportatori e ufficiali doganali, principalmente uomini, tra mercati densi e regolati da precise regole interne, frontiere variamente porose, strade, stazioni e piazze affollate e respingenti, le barriere che si oppongono al passaggio di corpi femminili impegnati a spostare merci sono molteplici. Eppure, le mukheristas non solo riescono a superare confini geografici, spaziali e sociali, ma vivono attraverso di essi secondo modalità dissonanti e spesso ignorate, che se osservate a distanza ravvicinata rivelano indizi di alternative impreviste, ma possibili.
Il flusso unico di corpi e oggetti attraverso cui il mukhero viene portato avanti, opponendosi all’ostilità dello spazio urbano, dischiude un’altra città, liminare, lambente la città delle presenze considerate “regolari”, e un’altra cittadinanza, che – per esistere – e itinerante, mobile e translocale e quindi radicalmente moderna. L’etnografia mobile condotta insieme alle mukheristas nei loro lunghi viaggi di lavoro mi ha permesso qualcosa di più profondo del solo cogliere il loro punto di vista: mi ha consentito di vivere in prima persona questa esperienza “altra” di cittadinanza, esperienza incarnata nei corpi che si muovono tra spazi difficili, divenendo a mia volta, come loro e con loro, corpo agente nello spazio. Ho potuto cosi verificare come le mukheristas, che resistono alle limitazioni e coercizioni sociali, spaziali, economiche e di genere, provano la tesi foucaultiana dell’impossibilita di un assoggettamento all’infinito e confermano il senso e l’opportunità di guardare in chiave relazionale alla dinamica tra violenza e reazione a essa, per passare da una visione negativa della peculiare forma di potere che la violenza rappresenta, a una generativa, capace di esplorare le potenzialità che sono messe in circolo. Di fatto, la logica che contrappone senza alternativa la violenza a una città ideale – summa dei principi che dovrebbero fondarla come spazio politico di concordia, uguaglianza e libertà – finge di ignorare che la politica include la violenza tra le condizioni del suo divenire pratico, della sua realtà processuale. Né d’altra parte si può dimenticare che la stessa storia dei diritti e dovuta passare per forme di lotta e impiego di mezzi violenti.
Le mukheristas, che agiscono all’intersezione di forme durature e sovrapposte di esclusione dalla cittadinanza – quella più recente delle donne migranti transnazionali dal Mozambico al Sud Africa; quella secolare delle donne che abitano la città coloniale e postcoloniale mozambicana; quella millenaria delle donne che si battono per un riconoscimento della propria presenza nell’urbano – sono le interpreti inconsapevoli di come sia possibile trasformare la violenza degli ambienti urbani in una pratica insorgente che reclama e lotta per il diritto alla città. Che per episodi frammentati e negletti lo realizza persino, e in una forma imprevista: quella di un abitare mobile, translocale, dinamico e generativo della città.