Al di là del suo esito immediato, che andrà verificato non solo rispetto al conseguimento degli obiettivi specifici degli scioperi ma in un’ottica più complessiva e nel medio periodo, la settimana tra il 22 e 28 marzo è indubbiamente importante per le lotte del mondo del lavoro, e in particolare per alcuni di quei segmenti che si sono rivelati “essenziali” anche durante la crisi pandemica che stiamo vivendo. Mentre scriviamo ci troviamo a metà fra due date indubbiamente significative: lunedì 22 c’è stato uno sciopero a suo modo storico, quello delle lavoratrici e dei lavoratori di Amazon Italia; venerdì 26 invece sono in programma altri due scioperi nazionali, quello dei rider delle piattaforme di food-delivery e quello della logistica. Si tratta di tre scioperi promossi da sigle sindacali molto diverse fra loro, il primo soprattutto dalle sigle confederali CGIL, CISL e UIL, il secondo dalla rete Rider per i Diritti su spinta delle Union metropolitane dal forte tratto di auto-organizzazione, il terzo dal sindacalismo di base (ADL e SI Cobas). Al di là delle differenze, però, ci preme sottolineare anche alcuni tratti comuni. Si fermano sia la logistica “classica” rappresentata da piccole e grandi aziende multinazionali (come Bartolini, TNT, FedeX, etc.), sia la logistica dell’ultimo miglio di recente costituzione (quella dell’e-commerce e delle consegne a domicilio sospinta dal cosiddetto capitalismo delle piattaforme). Amazon è in qualche modo la quintessenza di questa giustapposizione, uno dei più grandi datori di lavoro globali (e comunque l’azienda con il più alto fatturato al mondo) che ha intrecciato logistica planetaria, logistica metropolitana, clouding e digitalizzazione in un’unica company che tende al monopolio.
La logistica è uno dei pochi settori che dopo la crisi del 2007-2008 ha avuto una crescita esponenziale. Una situazione storicamente non inedita, a dirla tutta, visto che ad esempio Giovanni Arrighi già negli anni Novanta aveva dimostrato come, quando il core produttivo di un “ciclo sistemico egemonico globale” entra in crisi, la logistica e la finanza subentrano in funzione anti-ciclica come tentativo di uscita dalla crisi stessa. Queste tracce di ricerca sono utili anche per comprendere la centralità della “circolazione” – sia essa intesa come logistica a lungo o corto raggio, innestata negli spazi urbani, strutturata attraverso piattaforme, app e algoritmi, o sia in definitiva un elemento di inedita concentrazione di forza lavoro.
La logistica italiana, che vede nella megalopoli padana uno snodo cruciale per lo smistamento delle merci tra il Mediterraneo e il nord Europa (e viceversa), ha colto la crescita post-2008 investendo massicciamente su una cosa in particolare: il bassissimo costo della forza lavoro. Ha infatti puntato per lo più su una mano d’opera migrante e senza diritti, su ampi margini di illegalità, sul ricorso estremo a subappalti e al sistema delle cooperative per mascherare dietro la funzione del socio-lavoratore un’ulteriore de-regolamentazione del mercato del lavoro. Tuttavia a partire dal 2010, prima in Lombardia, poi in Veneto e in Emilia, fino al Piemonte e alla Liguria (e oggi anche in Toscana e altri luoghi), l’operaietà logistica si è ribellata con un importante movimento sostenuto dai sindacati di base che ha ottenuto significativi miglioramenti nelle condizioni di salario, diritti, nonché nella dignità di una forza lavoro prima ridotta in condizioni pesantissime di sfruttamento. Una lunga battaglia che si è fatta forte di forme di sciopero che hanno adottato una pratica di lotta a suo modo “semplice” ma che sembrava per lo più scomparsa, quella del picchetto. Un blocco effettivo delle merci che facendo male alle aziende le costringe a scendere a trattativa. Una pratica che è costata e costa moltissimo ai lavoratori e ai sindacalisti, non ultima la recente operazione che il 10 marzo ha condotto all’arresto di due leader sindacali del SI Cobas di Piacenza, alla sospensione del permesso di soggiorno per cinque operai, e a pesanti denunce per altri venti operai con tanto di perquisizioni all’alba e sequestro di computer e cellulari come nelle operazioni contro la grande criminalità. Il tutto per uno sciopero alla Fedex, che sta minacciando in tutta Europa più di seimila licenziamenti e che lungo tutta la filiera ha visto significativi episodi di lotta.
La storia delle lotte dei rider è più recente. Le piattaforme di food-delivery hanno iniziato ad affermarsi in Italia 5-6 anni fa, impiegando inizialmente per lo più giovani (spesso studenti) italiani, attratti dalla novità e dalla retorica della gig economy: il lavoretto in cui puoi lavorare quanto e quando vuoi portandoti a casa un po’ di soldi per arrotondare. Nel giro di poco tempo però questa retorica ha rivelato il suo lato oscuro, con un lavoro dimostratosi pesante fisicamente, sempre più rischioso a causa di un sistema retributivo basato sul cottimo, con una incessante competizione tra i lavoratori per accaparrarsi turni e consegne, e in cui la disciplina algoritmica ha reso la capacità di controllo della piattaforma assolutamente pervasiva. Il tutto all’insegna di una retorica neoliberista dell’imprenditore di sé stesso che ha sacrificato diritti e tutele universali in nome della concorrenza. All’espansione repentina del settore ha fatto da contraltare lo sviluppo di un movimento di lotte perlopiù metropolitane, spesso non captate dal sindacalismo confederale, che sono andate organizzandosi e rafforzandosi nel tempo anche in parallelo con un cambiamento della forza-lavoro che ha visto sempre più affiancarsi alla prima generazione altri segmenti di forza-lavoro, dai migranti ai lavoratori espulsi dal mercato del lavoro. Così come per le lotte nella logistica, è bene sottolineare che questo percorso di mobilitazione non si è sviluppato solo in Italia, ma in simultanea con molte altre città europee, latino-americane, indiane e cinesi. A fronte di un movimento che ha messo al centro delle sue rivendicazioni la richiesta di tutele universali e paghe agganciate ai contratti collettivi nazionali, l’associazione di settore delle piattaforme di food delivery ha siglato a settembre 2020 un contratto che riconosce definitivamente il cottimo come forma contrattuale di riferimento, provocando così una nuova ondata di proteste anche alla luce del ruolo sempre più essenziale di questi lavoratori all’interno delle nostre città in tempi di pandemia. Tutto questo ha peraltro condotto a numerosi pronunciamenti da parte di diversi organi giudiziari italiani negli ultimi anni, l’ultimo dei quali ha portato il PM Francesco Greco di Milano a pronunciarsi in termini durissimi: «I riders sono lavoratori subordinati. Non è più il tempo di dire che sono schiavi ma è il tempo di dire che sono cittadini». Di più, mentre in Spagna è stata appena approvata una legge che inquadra i fattorini delle piattaforme di food delivery come lavoratori subordinati, in Francia ed in Italia Just Eat/Takeaway si appresta a fare altrettanto di sua iniziativa.
La storia di Amazon, infine, è stata fino ad ora decisamente meno scalfita da forme di insubordinazione operaia, almeno in Italia. L’impero di Jeff Bezos ha iniziato a territorializzarsi qui da noi una dozzina di anni fa, con un incremento repentino nella costruzione di propri magazzini negli ultimi cinque anni. La latenza di conflitti non è dovuta solamente alla nota e dura politica antisindacale della multinazionale, ma anche al fatto che Amazon si è presentata come nuovo player dalle condizioni di lavoro innovative. L’investimento di Amazon, a differenza del resto della logistica italiana sino ad allora, si è basato sia su una decisa innovazione tecnologica, sia in forme di assunzione a prima vista attraenti. L’azienda ha inoltre avuto un deciso sostegno da parte delle istituzioni nazionali e locali, presentandosi soprattutto in territori periferici e di provincia promettendo lavoro e sviluppo con le sue installazioni. La forza-lavoro impiegata è giovane e per lo più italiana, e la collocazione dei primi magazzini in paesi e paesini delle province lombarde, emiliane e venete le ha dato accesso a bacini di mano d’opera fortemente colpiti dalla “coda lunga” della disoccupazione post-2008. Tuttavia, le condizioni di lavoro si sono ben presto rivelate estremamente pesanti e con un’intensificazione crescente dovuta all’aumento del traffico e dei nuovi servizi Prime. Ma, soprattutto, si è realizzato che la gestione della forza-lavoro di Amazon è quella di un lavoro “alla spina”, ossia assunzioni a tempo determinato spesso anche per periodi molto brevi e in eccesso rispetto ai limiti di legge in occasione dei picchi di ordine (come il Black Friday, Natale o altre festività) a cui possono seguire repentini abbassamenti dell’impiego. I lavoratori vengono inoltre “spremuti” con ritmi lavorativi intensissimi, con una concezione del lavoro “usa e getta” e – riprendendo un classico lessico logistico – just in time. Solo che mentre una volta il just in time era legato alla gestione delle merci nei magazzini, oggi lo si applica anche alla forza lavoro. Dopo alcuni scioperi e tentativi di sindacalizzazione isolati, si è arrivati allo sciopero del 22 marzo in tutta Italia, un inedito per Amazon. Sebbene attraversata da conflittualità (per esempio in Germania, Francia e Stati Uniti), non era mai successo che Amazon dovesse misurarsi su uno sciopero nazionale.
Il fatto, dunque, che si stia assistendo a una sincronizzazione di questi tre vettori della logistica contemporanea – globale, metropolitana, e-commerce – indica quali sono i contorni del futuro del lavoro, sia in termini di ristrutturazione dei processi produttivi che di conflitto lavoro/capitale all’interno di quella che in termini più generali viene chiamata la “quarta rivoluzione industriale”. E non è certamente un caso che questi scioperi avvengano in piena pandemia, dal momento che i lavoratori della logistica sono stati considerati come “essenziali”. La loro importanza va colta, dunque, non solo a partire dalle loro importanti specificità in quanto conflitti sulla frontiera delle mutazioni capitalistiche, ma anche perché la battaglia che si gioca in questi contesti ha e avrà ricadute più generali su tutto il mondo del lavoro. La ristrutturazione economica che si sta iniziando a definire (a livello italiano e globale) all’interno e al di là della crisi pandemica inizia dunque ad accompagnarsi anche a queste forme di rifiuto e insubordinazione operaia i cui effetti incideranno sulla società in senso ampio. Queste lotte, infatti, ci parlano di cosa significa e quali sono i campi di tensione nella rivoluzione digitale, ma anche di modelli di business che tendono al monopolio e che spesso e volentieri si muovono come player globali che superano e riscrivono a proprio vantaggio le norme sul lavoro e quelle fiscali, godendo di ampi margini di de-regolamentazione a livello territoriale. Per tutti questi motivi, sarà fondamentale affrontare questi processi non in maniera passiva, ma con una visione chiara del tipo di lavoro e società che vogliamo.