Se negli ultimi anni la piazza non è un luogo così politicamente frequentato, né appare vera protagonista di generalizzato conflitto sociale e politico, il Covid-19 e l’inasprimento delle tensioni sociali la riportano al centro dell’informazione e della riflessione socio-politica.
In questi giorni, infatti, al posto delle quasi liturgiche manifestazioni che solitamente cercano ci riscaldare autunni ormai glaciali, stiamo assistendo a un’ondata di rivolte e rivendicazioni che percorre il Paese da Sud a Nord.
Nelle serate appena trascorse abbiamo visto una varia e diffusa rabbia sociale in tante piazze italiane. Napoli, in particolare, è un prezioso laboratorio di osservazione e spesso apripista di fenomeni poi generalizzati. Le prime tensioni in città si sono verificate nella nottata tra il 23 e il 24 ottobre. L’ipotesi di un lockdown regionale ha innescato la scintilla e il nuovo DPCM hanno fatto prendere coraggio, con un effetto palla di neve, ad altre persone e ad altre città.
Tre sono i punti sui quali sarebbe interessante una riflessione collettiva.
Le rivendicazioni che emergono dalle piazze, la composizione di queste e la mancanza di referenti e organizzazioni in grado di capitalizzare politicamente questa rabbia sono i temi che vorrei toccare partendo dalle rivolte partenopee.
Le varie proteste, con diverso grado di consapevolezza, hanno evidenziato che il sottodimensionamento e il progressivo depauperamento della sanità pubblica non hanno reso possibile affrontare con rigore ed efficienza la pandemia e che nel frattempo milioni di studenti e studentesse sono stati costretti a rinunciare al diritto all’istruzione (o a farvi fronte con le toppe messe dalla famigerata didattica a distanza, poi didattica digitale integrata). Tante persone con contratti a chiamata o a tempo determinato non hanno avuto alcuna garanzia di salario, tante altre hanno perso il lavoro. Tutto ciò accadeva e accade mentre un esercito di lavoratori ritenuti indispensabili continua comunque a recarsi sul posto di lavoro e lì ad infettarsi.
Invece, chi è costretto a restare a casa e che, soprattutto in una città come Napoli, spesso e poco volentieri, mangiava grazie alle briciole dell’economia informale, o chi è stato messo in cassa integrazione avendo una posizione di lavoro di partenza grigia – ovvero un lavoro un po’ dichiarato e un po’ a nero – le misure economiche non sono state sufficienti e perciò nelle piazze napoletane le rivendicazioni erano centrate sulle misure di sostegno al reddito e sui piani di intervento in ambito economico e sanitario. In sostanza, prima gli aiuti; poi, se necessario, il lockdown.
D’altro canto, chi vive del proprio lavoro, nel senso che altrimenti non avrebbe i mezzi di sostentamento per condurre un’esistenza degna, ha bisogno proprio di lavorare per vivere, a meno che non siano contemplate delle reali misure di emergenza.
Sulla composizione. Le piazze che stiamo vedendo sono eccezionalmente ed estremamente composite e il racconto non può essere liquidato con etichette superficiali: anarco-insurrezionalisti, professionisti del disordine, estremisti di destra o black-bloc. In questo modo, infatti, la narrazione per categorie semplicistiche rischierebbe solo di delegittimare gli accaduti, senza comprenderli. In piazza a Napoli c’erano e forse ci saranno tante e varie persone, ma soprattutto c’era (e forse ci sarà) la voglia di mettere sul piatto che il binomio salute-lavoro o salute-economia non può più essere retto in questi termini contraddittori e di contrapposizione. Né tantomeno si può pensare che la crisi continuino a pagarla gli ultimi, chi vive di lavoro nero, chi di lavori precari e malpagati, i disoccupati, i giovani e le donne.
Il ricatto salute-lavoro, ci dicono queste piazze, è un falso ricatto. E lo è a maggior ragione dal momento in cui non si tratta più dello scoppio e della repentina e indiscriminata diffusione di un’epidemia mondiale. Ora sarebbe il momento in cui, dopo la sofferenza iniziale che potremmo giustificare come necessaria a causa dell’incontrollata corsa del virus, delle contromisure governative fossero operanti e iniziassero anche a dare degli effetti tangibili. La gente di queste piazze si aspettava soluzioni e risposte. In questo senso, infatti, febbraio, marzo e aprile hanno rappresentato un terreno inedito per tutti e una palestra per lo stesso governo, ma a distanza di mesi dallo scoppio della pandemia, la gente sperava e, a questo punto, ora inizia anche a pretendere che la palestra sia stata fatta. Inoltre, le proteste hanno rimarcato che questa palestra è stata fatta sulla pelle degli strati più deboli e volubili della popolazione, gli stessi che negli anni si erano visti spogliare del diritto di cura nei propri territori, assistendo a ingenti e indiscriminati tagli alla sanità pubblica e a pochi o nulli investimenti orientati perlopiù all’aziendalizzazione del servizio sanitario nazionale.
Nelle proteste di Napoli, il Palazzo della Regione e Confindustria sono stati i primi obiettivi davanti ai quali i manifestanti hanno portato malcontento e rabbia. Chi è sceso in piazza non è necessariamente contrario alla chiusura in sé, ma piuttosto si oppone al modo di gestione e alle contraddizioni che già il primo lockdown nazionale aveva delineato e che le decisioni sulla chiusura della regione e il coprifuoco dettati dal Presidente De Luca hanno replicato. Le rivendicazioni e gli atteggiamenti delle piazze napoletane (ma anche quelli delle altre città) non sono affatto da “negazionisti”. I manifestanti rivendicano, infatti, tamponi e test diagnostici a tappeto e un sistema di sostegno in termini socio-economici ai nuclei più deboli.
Come le proteste dimostrano, la cosiddetta seconda ondata sta facendo saltare quella rinuncia, individuale e collettiva, alle proprie libertà e necessità dinanzi ad un bene più alto e comune come la salute. Questo schema, infatti, non regge più dal momento che la mancanza di reali sostegni al reddito e la preoccupazione per la propria salute stanno squarciando il velo di quella diffusa cultura di pace sociale che non poteva tollerare laceranti tensioni. Invece le tensioni sono arrivate.
L’eterogenea composizione delle piazze napoletane ci porta al terzo punto di riflessione perché rende clamorosamente evidente la mancanza di organizzazioni politiche e istituzionali in grado di veicolare per canali politici, appunto, quei bisogni e quelle rivendicazioni che spontaneamente in queste piazze sono emerse. La rabbia espressa nelle rivolte di questi giorni non è facile da raccogliere in un’etichetta o in una categoria, ma è la chiara manifestazione dell’impossibilità per molti di procedere in queste condizioni e in questa direzione.
Tuttavia, a Napoli più che altrove, trovano spazio le narrazioni sulla eterodirezione delle piazze e della stessa rabbia sociale e si è detto che dietro queste rivolte ci fosse la camorra, che le aizzassero gli ultras, gli eversori, i fascisti e i centri sociali. Il punto è che queste categorie saltano e l’unica evidenza è che si tratta di un magma, composito e forse anche ambiguo, di persone che si mischiano e che mischiano i loro interessi perché dal lavoratore a nero alla (spesso falsa) partita iva passando per il piccolo commerciante e il lavoratore autonomo o il pizzaiolo si fa strada la consapevolezza di dover fare da sé.
Tutto ciò in una città che ha oltre il 30% di disoccupati e in una regione che conta più della metà della popolazione a rischio povertà.
E allora, chi c’è in piazza? In piazza ci sono rabbia, preoccupazione e conflitto sociale…