“La cura non può essere peggio della malattia”, ha detto lunedì 23 marzo il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump di fronte alla stampa. Il messaggio di Trump fa eco a quanto ripetuto dagli speaker dell’emittente televisiva Fox News e da diversi esponenti repubblicani nel corso delle ultime settimane. L’inquilino della Casa Bianca sa bene che per vincere la sfida delle presidenziali a novembre dovrà riportare l’economia americana a “ruggire” al più presto, forse al costo di sospendere il lockdown nelle aree colpite prima della fine di aprile. Per evitare il disastro, il Governo statunitense ha avviato un mastodontico programma di assistenza, con più di 2000 miliardi di dollari in sostegni per le imprese e i cittadini. Nel frattempo, le richieste per i sussidi di disoccupazione sono schizzate a quasi tre milioni e mezzo, un numero che fa impallidire persino il “picco” registrato durante la crisi del 2008.
Fonte: Business Bourse
Per chi crede che una vita umana meriti di essere salvata indipendentemente da qualsiasi altro fattore, paragonare le conseguenze economiche dell’isolamento (la “cura”) ai danni della pandemia (la “malattia”) suona immorale e, per molti versi, inaccettabile. Tuttavia, l’impatto della crisi potrebbe essere drammatico, penalizzando maggiormente i segmenti più deboli del mercato del lavoro. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) ha stimato che 25 milioni di persone in tutto il mondo potrebbero diventare disoccupati, con una perdita complessiva di oltre 3400 miliardi di dollari. In alcuni paesi, l’impatto sarebbe equiparabile a quello del crollo dell’Unione Sovietica sugli stati del Blocco Orientale, il cui PIL precipitò del 30-50% in soli due anni. I dati del primo bimestre in Cina confermano questi scenari: la vendita di tutti i beni è scesa del 20.5%; la vendita delle automobili è calata dell’80%; il PIL potrebbe contrarsi del 10% o più nella prima parte dell’anno.
Come spiega il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman, la crisi del Covid-19 è diversa dalle precedenti perché colpisce simultaneamente dal lato della domanda e dell’offerta. I paesi di tutto il mondo soffriranno due shock diversi: lo stop della produzione nei paesi colpiti, con il conseguente danno sulle catene di valore globali, e il calo dei consumi insieme al crollo della fiducia nei mercati. Un secondo ordine di problemi riguarda i difetti strutturali delle economie avanzate, “imperfette” già prima della pandemia. Con tutta probabilità, l’emergenza del Covid-19 finirà per aggravare le vulnerabilità preesistenti, come i crescenti divari tra le fasce di reddito, la precarietà lavorativa e la debolezza della rete di protezione sociale per chi è fuori dal mercato del lavoro. Tra i paesi del gruppo OCSE, più di un terzo delle famiglie sono esposte a insicurezza finanziaria.
Per sopperire alla caduta dei redditi e sostenere chi perderà il lavoro, il Governo degli Stati Uniti elargirà assegni dal valore di 1200 dollari a ogni adulto che guadagni fino a 75mila dollari, con contributi per i nuclei familiari dal valore massimo di 3000 dollari. La misura è stata apostrofata come “helicopter money”, richiamando la nota proposta del monetarista Milton Friedman. La bontà di questa policy deriva proprio dalla capacità di raggiungere facilmente un vasto numero di persone, evitando quindi un’eccessiva burocratizzazione e riducendo il rischio di segmentare gli aiuti per le diverse categorie occupazionali. Seppur richiedendo la prova dei mezzi (means-test) ed erogando un assegno una tantum, la policy richiama per molti aspetti la proposta di un Reddito di Base Incondizionato (RBI), un’allocazione monetaria data a tutti e priva di obblighi o restrizioni.
Pur presentando alcuni vantaggi, l’“elicottero” progettato da Washington rischia di non sostenere a dovere chi avrà bisogno: 1200 dollari potrebbero essere “troppi” per chi non soffre importanti perdite, e risultare insufficienti per chi viene licenziato, così come per i professionisti e per i lavoratori autonomi che vedranno annullate le proprie commesse. Inoltre, in periodi di incertezza le persone tendono a preferire il risparmio sui consumi, vanificando quindi gli sforzi fatti per promuovere la domanda interna. Per far fronte a queste criticità, gli economisti di Berkeley Gabriel Zucman ed Emmanuel Saez hanno proposto un intervento sensibile ai diversi bisogni di partecipa al mercato del lavoro. Gli esperti si sono detti a favore di una nuova forma di assicurazione sociale, che veda lo stato nei panni di un “pagatore di ultima istanza”: invece di affidare la domanda e l’offerta dei posti di lavoro alle forze del mercato, il governo rimborserebbe le imprese per il totale delle perdite (affitti, spese di gestione, interessi, etc.) evitando che falliscano o che siano costrette a licenziare i propri dipendenti.
Per Saez e Zucman urge garantire la massima liquidità ai lavoratori e alle aziende. Secondo quanto proposto, i lavoratori riceverebbero sussidi speciali pur non essendo formalmente licenziati; anche i lavoratori autonomi e gli occupati nella gig economy avrebbero diritto al sussidio. Le aziende invece beneficerebbero di aiuti speciali per non fallire: l’obbiettivo è che ogni impresa possa ripartire “quasi intatta” e libera da debiti alla fine del periodo di ibernazione. La proposta di Saez e Zucman richiama il piano adottato dal governo della Danimarca per far fronte alla crisi: Copenaghen ha annunciato di voler “congelare l’economia”, con investimenti fino al 13% del PIL in tre mesi. Nel paese nordico, le imprese riceveranno compensazioni pari alle spese fisse e i lavoratori saranno direttamente compensati tra il 75 e il 90% del salario corrente. Per quanto caro, il programma sarebbe comunque meno costoso della re-integrazione dei lavoratori nel caso in cui venissero licenziati.
Secondo alcuni osservatori, la crisi in corso impone un ripensamento del ruolo dello stato nell’economia e un ribilanciamento nel rapporto tra “stato” e “mercato”. Mariana Mazzucato ricorda che a partire dagli anni ’80 i governi sono stati obbligati a “sedersi sul sedile posteriore” e lasciare le imprese libere di creare ricchezza, intervenendo solo nei casi di fallimento di mercato. Per questo motivo, gli stati non sono più preparati a reagire a emergenze come quella in corso. In un contesto “winner-takes-all”, in cui le multinazionali rischiano di essere i veri vincenti da questa crisi (ad esempio Amazon ha appena annunciato di voler assumere 100.000 persone negli Stati Uniti), è fondamentale che i governi intervengano direttamente per supportare i processi di innovazione e creazione di valore condiviso. Ad esempio, i governi potrebbero introdurre clausole di condizionalità per l’erogazione di prestiti alle grandi aziende, indirizzandoli verso la ristrutturazione dei settori economici in senso socialmente ed ecologicamente sostenibile.
Adottando le giuste contromisure, il mondo alla fine di questa crisi potrebbe essere molto diverso da quello che conosciamo: economie sensibili ai bisogni delle persone e non governate esclusivamente da meccanismi di mercato; infrastrutture sociali rigenerative, innovative e sostenibili; sistemi di welfare opportunamente finanziati e in grado di proteggere le persone da nuovi e vecchi rischi sociali. In un passaggio meno discusso del noto articolo di Mario Draghi sul Financial Times, l’ex presidente della Banca Centrale Europea ci invita ad abituarci all’idea che l’indebitamento diventi una condizione strutturale delle nostre economie. A corto di un ripensamento profondo del sistema, potremmo trovarci impreparati anche alla prossima crisi e alle sue conseguenze. Se la Grande Recessione, dopo una brevissima fase “keynesiana” di salvataggio delle banche, ha consolidato i principi neoliberisti dell’austerità permanente e del rigore fiscale, la crisi del Covid-19 rappresenta un’occasione per promuovere politiche più sane e inclusive, che prendano le difese di “Main Street” e non solo di “Wall Street”.