È un luogo comune che il populismo – in qualsiasi sua forma e orientamento – non possieda una cultura, che anzi disprezzi gli intellettuali. Certamente l’ignoranza ostentata, i continui strafalcioni dei suoi esponenti, la polemica antiscientifica e antiaccademica, l’orgoglio plebeo, il razzismo rivendicato, rafforzano, ovunque, l’immagine di un fenomeno politico privo di riferimenti culturali e senza nessuna ossatura ideologica.
Il populismo è un soggetto politico plurale: la sua nascita e il suo sviluppo non hanno seguito uno svolgimento storico uniforme, non possedendo né una coerenza formale, né una dottrina o lineamenti teorici organici, pur mostrando affinità e concordanze, più o meno evidenti, con altri movimenti e ideologie.
Gli intellettuali hanno avuto una parte importante nella sua genesi. Per lungo tempo si è scritto – e non a torto – che il rapporto tra politica e cultura si era definitivamente incrinato a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, dopo un lungo periodo che aveva visto gli intellettuali protagonisti assoluti del dibattito pubblico. A questa stagione è seguito un lungo silenzio, gravido di conseguenze per la società, come hanno scritto da punti di vista diversi Tony Judt, Alberto Asor Rosa e Enzo Traverso. Se cambiamo prospettiva, tuttavia, e se scaviamo più a fondo nelle mutazioni intervenute nel ruolo sociale e nelle funzioni degli intellettuali, ci accorgeremo che, lungi dall’aver esaurito il suo ruolo, la figura dell’intellettuale ha assunto nuove e più complesse funzioni, legate alle trasformazioni che sono intervenute, in particolar modo, nei campi delle comunicazioni e dell’informatica.
Questa nuova dimensione dell’intellettuale non poteva non avere ricadute importanti sul rapporto con la politica. Il binomio politica e cultura si è sciolto e riconfigurato in un’alchimia più complessa, tra potere, società e nuovi mezzi di comunicazione. L’Italia, dagli anni Ottanta a oggi, è stata per ben due volte laboratorio di questa trasformazione: dapprima con la parabola del berlusconismo, in cui il rapporto tra potere, televisioni e cultura di massa ha ridefinito le forme della rappresentanza democratica; in secondo luogo, con la comparsa sulla scena politica del Movimento 5 Stelle, la cui affermazione è stata possibile in virtù della rivoluzione digitale che ha riscritto le regole della mobilitazione collettiva, proponendosi di sostituire la democrazia parlamentare con una forma di rappresentanza diretta, attraverso una prassi referendaria digitale permanente e senza quorum. Tra le due rivoluzioni tecnologiche, quella analogica e quella digitale, esistono enormi differenze, ma anche una profonda connessione. Il trait d’union è stato fornito proprio dalla cultura che ha giocato un ruolo chiave nella messa in discussione del sistema liberal-democratico. Sullo sfondo lo sgretolamento, in Italia come in gran parte dei paesi europei, delle principali famiglie politiche incapaci di fornire risposte alle conseguenze provocate dalla crisi finanziaria esplosa nel 2008: la socialista, innanzitutto, la più marginale sinistra post-comunista e i ben più importanti partiti d’ispirazione cristiana insieme alla destra conservatrice e liberale. Per comprendere appieno il dilagare dei populismi, tuttavia, non possono essere presi in considerazione solamente gli elementi congiunturali. Il caso italiano ha rappresentato, in questa prospettiva, un vero e proprio laboratorio d’incubazione. Il progetto di radicalizzazione dei ceti medi coltivato storicamente dalle destre ha, infatti, radici antiche e ha avuto come scopo quello di abbattere l’architrave su cui si era retta l’intera impalcatura della Repubblica: rovesciare, in sintesi, la funzione storica della Democrazia cristiana che aveva moderato i ceti medi per ancorarli alla democrazia. Dall’inizio della parabola berlusconiana fino all’ascesa della Lega nazionale di Salvini, è stata messa in campo, in maniera progressiva ed esponenziale, una riuscita pedagogia dell’odio, volta a creare una vera e propria egemonia culturale.
Pertanto, laddove, come in Italia, i populismi hanno conquistato il governo, il rapporto tra politica e cultura si ridefinisce attraverso una lunga sequela di immagini rovesciate: la cultura progressista come egemone nella società, l’antifascismo come ideologia dominante, il relativismo etico dilagante, l’iperestensione dei diritti sociali causata dal Sessantotto come causa della crisi della democrazia. Sono rappresentazioni, queste, utili a nascondere i reali rapporti di forza presenti oggi nella società italiana. Fatte le debite proporzioni, sembra di assistere alla stessa operazione di capovolgimento del mondo messa in atto dagli intellettuali della destra radicale francese negli anni Trenta e Quaranta, quando si autorappresentavano come una minoranza marginalizzata impegnata a difendere la civiltà occidentale assediata dall’esterno e divorata dall’interno da nemici potenti quanto invisibili, mentre, in realtà, finirono col ricoprire il ruolo dei chierici al servizio di un potere assoluto.
Il cospirazionismo come cifra dei rapporti sociali e come chiave interpretativa della realtà in tutte le sue manifestazioni, è la spia più inquietante di questa nuova egemonia culturale. Il tema dell’emigrazione è diventato il catalizzatore della mutazione in corso. Purtroppo di fronte alla radicalità di questi processi si registrano due atteggiamenti d’opposizione intellettuale, entrambi destinati al fallimento: una prima tendenza, ultra-minoritaria e neo-avanguardista, convinta che si possa cavalcare la tigre populista e ridirigerla verso sinistra; la seconda, più diffusa, di tipo elitario, si arrocca nella difesa dello status quo, denigra i populismi, ne sminuisce la portata. Questa ripropone, però, non di rado forme di nicodemismo verso la democrazia nell’ipotesi che la riconfigurazione dei rapporti di potere oggi in corso possa andare fino in fondo.
Ci sono voluti decenni di aspro confronto intellettuale e storiografico prima che si comprendesse quanto fosse stata importante la cultura nella genesi e nell’affermazione del fascismo. Non comprendere questo nesso nel dilagare odierno dei populismi rappresenterebbe un altrettanto grave e imperdonabile errore.