Il tema della valorizzazione del patrimonio culturale è stato a lungo al centro delle politiche culturali italiane a tutti i livelli – da quello centrale, a quello regionale e urbano – e la ragione è semplice: nel nostro paese, il patrimonio storico-artistico identifica uno degli elementi ritenuti caratterizzanti del nostro sistema di offerta culturale, e quindi si pone come un potenziale fattore di vantaggio competitivo non soltanto sul versante del mercato turistico ma anche su quello della produzione culturale vera e propria.
Il concetto di patrimonio culturale è tuttavia complesso e pone non pochi problemi metodologici. Per cui, al di là del suo forte potere evocativo e al di là di una collezione di casi che rientrano sicuramente nella fattispecie comunque la si definisca, è a volte difficile intendersi sulle condizioni che concorrono a definire cosa sia esattamente il patrimonio culturale di un paese. La questione non è puramente terminologica, e nemmeno meramente teorica: essa riguarda infatti la relazione che esiste tra l’identità storica e simbolica del paese e i suoi processi di sviluppo economico e sociale. Parlare di valorizzazione del patrimonio implica, in particolare, che lo sviluppo socio-economico possa e in un certo senso ‘debba’ muoversi lungo una traiettoria evolutiva nella quale la cultura non può che giocare un ruolo di primissimo piano: una grande opportunità, certamente, ma anche, allo stesso tempo, una grande responsabilità.
Nelle politiche di sviluppo locale di questi ultimi anni – e ancora di più forse a livello di sistema paese – il potenziale di sviluppo del patrimonio è stato però declinato soprattutto sul versante turistico, spesso facendo riferimento ad una retorica celebrativa e a un immaginario oleografico e datato, genericamente centrato su una concezione stereotipata della città d’arte, che rispecchia pedissequamente i più vieti luoghi comuni mediatici, ma così facendo si ritiene adeguata a soddisfare le aspettative di un mercato turistico di massa dai gusti non particolarmente sofisticati e però con buone capacità di spesa. Una scelta che tuttavia non ha pagato, e non soltanto per i mancati exploit in termini di dinamiche di affluenza al di fuori delle città d’arte ‘canoniche’, ma soprattutto perché, ragionando in termini di stereotipi mediali predeterminati, l’offerta culturale all’interno di questo contesto finisce per essere modellata a misura di una customer orientation che ne svilisce progressivamente l’autenticità, la vitalità culturale, la capacità di innovare, consegnandosi ad una logica di puro sfruttamento di una rendita dalle basi sempre più esili.
E’ purtroppo grazie alla diffusione di questa logica – apparentemente dettata da considerazioni di razionalità economica ma in realtà rispondente ad una concezione ottusa e strumentale del senso economico della cultura – che si è assistito alla progressiva involuzione di tante città d’arte della cosiddetta ‘Italia minore’ (una terminologia che non potrebbe essere più infelice nel consegnare tante parti del nostro straordinario territorio ad una condizione simbolica e mentale di marginalità che finisce per auto-realizzarsi), che nel tentativo di attrarre flussi turistici di una qualche entità, hanno dato spazio crescente a modesti mercatini di souvenir e pacchetti vacanze spesso di dubbio gusto, che le hanno fatte assomigliare sempre più a repliche dimesse e poco competitive dei classici parchi a tema. E’ questa la teleologia inevitabile di una strategia di valorizzazione che vuole far sì che il nostro paese ‘viva di cultura’ rinunciando però allo stesso tempo, direi programmaticamente, a ‘vivere la cultura’, a fare cioè dell’accesso culturale, in primis dei suoi residenti, il dato fondamentale del modello di sviluppo locale e prima ancora del modello di cittadinanza attiva.
Se si vuole dare nuovo slancio e nuova attualità a questo modello bisogna allora liberarsi di tutte le consolatorie ma totalmente fuorvianti metafore ‘petrolifere’ che ancora affliggono il ragionamento sul potenziale di sviluppo del nostro patrimonio culturale, inducendo a pensare in modo del tutto inappropriato che la valorizzazione economica della cultura sia una scommessa sicura, che richiede soltanto di sapere, appunto, estrarre con perizia una rendita bell’e pronta. E’ vero esattamente il contrario: per creare sviluppo attraverso la cultura, bisogna entrare appieno in una logica di investimento, rischio, sperimentazione, sapendo che la cultura ha un senso – anche economico –soltanto quando è viva, capace di esplorare nuovi territori, indurre il cambiamento, liberare nuove energie. E questo è tanto più vero per le nuove generazioni che vivono l’espressione culturale come un fatto naturale e quotidiano, e che non sono più interessati ai vecchi modelli di esperienza dello spazio urbano fatti di foto ricordo e Torri di Pisa sotto vetro, ma vivono già nella nuova frontiera disegnata dall’innovazione tecnologica, fatta di luoghi che ibridano fisico e virtuale, che lavorano su un concetto nuovo e più ricco di patrimonio nel quale i flussi informativi multimediali assumono un ruolo centrale e superano la dimensione dell’intrattenimento fine a sé stesso, che già ragionano nei termini che definiranno l’esperienza dello spazio nei prossimi 5-10 anni: una realtà ibrida in cui la dimensione fisica e quella digitale si combinano in forme complesse e affascinanti, non prive però di criticità sociali che richiedono un’attenta considerazione.
Pensare al patrimonio culturale in termini banalmente rievocativi e nostalgici non è soltanto una scommessa persa, è condannare la cultura ad un futuro di malinconica decadenza e marginalità – e questo vale anche per quelle grandi città d’arte che sono sì invase da folle di turisti smaniosi di esserci, ma che stanno appunto smettendo di essere città per diventare caotici, costosi, inefficienti parchi a tema e che così facendo distruggono il loro tessuto sociale e civile oltre che culturale, consegnandosi ad un futuro di città-fantasma, di palcoscenici privi di vita al di fuori del peak time dei flussi turistici – e quindi destinate ad un’esistenza e poi infine ad una sopravvivenza sempre più forzata, artificiale, inautentica. Per cui, il futuro del patrimonio culturale come possibile piattaforma di sviluppo passa da strade molto diverse da quelle abitualmente evocate nei tanti, forse troppi dibattiti dedicati al tema: la produzione e l’imprenditorialità creativa, la capacità di connettersi alle grandi reti internazionali, la capacità di attirare investimenti. Si tratta cioè di direttrici di sviluppo che presuppongono una reale capacità imprenditoriale, uno sforzo creativo simile, per qualità e complessità, a quello che ha permesso all’Italia di uscire dalle secche della crisi degli anni settanta – uno sforzo per il quale servono idee, competenze, e soprattutto credibilità. E per operare questa rivoluzione che ormai diventa tanto necessaria quanto urgente, servono soprattutto territori che si candidino ad essere laboratori di sviluppo di buone prassi da estendere progressivamente all’intera realtà nazionale.